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Cages, il viaggio sfuggente tra un battito del cuore e un big bang | Fuori le Mura

Cages, il viaggio sfuggente tra un battito del cuore e un big bang

5 marzo 2012

di Flavio Camilli

Per Dave McKean dio è in un bacio, nel ritmo delle stelle e nelle semplici storie di tre artisti. Un’irrinunciabile opera-mondo a fumetti che finge di parlare di gabbie per poi raccontare la creazione. A modo suo.

Ci risiamo. La pagina bianca, tutto da dire e nessuna parola per dirlo. Nessuna parola adatta. Ché le cose belle davvero sono inenarrabili. Iniziare ammettendolo è una soluzione. Banale, certo, ma intanto hai cominciato e puoi tentare di continuare, cercare i concetti dentro pagine altrui, dentro note altrui, dentro colori altrui, tanto nell’attimo del furto sarà giù tutto tuo, perché le parole sono di dominio pubblico. Questa “cosa” bella che necessita di una vita di canzoni, libri e quadri per essere raccontata è Cages, capolavoro a fumetti di Dave McKean (illustratore, fumettista, regista e fotografo – ellallà! – famoso in Italia soprattutto per le stupefacenti copertine del Sandman di Neil Gaiman) pubblicato dal 1990 al 1996 e recentemente riproposto da MagicPress in un bel volumone di 500 pagine.

Un gatto nero vaga per una cittadina ignorata dal sole, raggiunge Angel, silenzioso musicista di colore, seduce Jonathan Rush, famoso scrittore ora recluso in casa con la moglie, osserva Leo Sabarsky, pittore, da poco trasferitosi nello stesso condominio di Angel e Rush. La ragione del trasloco? Una tela da riempire, magari con il ritratto di una donna spiata dalla finestra: Karen, aspirante dipinto, decisa a farsi sedurre – ma non ora, non qui, non ancora – come un capolavoro che sicuramente arriverà, nonostante la magia e l’angoscia siano tutte nell’attesa. Cages procede così, accumulando vignette nel tentativo di raccontare una manciata di vite. McKean diluisce la tecnica madre – fondo bianco, inchiostro di china nero e sporadici retini – con numerose altre tecniche, l’irrompere del colore o della fotografia, rimanendo originalmente concentrato sui volti, così assenti o sfocati in molte delle più famose illustrazioni. A volte deformi, dimentichi di facili regole anatomiche, ma per questo inspiegabilmente vivi, palpitanti, catturati in espressioni che credevo impossibile raffigurare. Lo storytelling è intrepido: non c’è la paura di sprecare inquadrature raffigurando il volteggiare delle foglie nel buio o dedicando pagine al concerto di uno sconosciuto, alle note di un sassofono, al diradarsi delle cornici, a causa della musica prima appannate e poi sciolte, mescolate con l’esistenza che dovrebbero delimitare. Tutto diventa altro, alla fine, un nuovo luogo, un momento del futuro, il capitolo successivo.

Leo, Jonathan, Angel sono solo pretesti narrativi per parlare della narrazione stessa, note fantasma per dire di musica, pennellate qualunque per trattenere l’arte. Creature per rappresentare, capire, guardare la creazione. Dave McKean, però, non è uno che si scrive addosso né mangia retorica ed espelle didascalismo. Il modo in cui conduce la sua indagine sul mondo è delicato, superficiale per scelta. In questo caso la volontà di raccontare storie semplici non è affatto una leggerezza, piuttosto una profonda riflessione e un enorme atto di fiducia nei confronti del lettore, deputato a interpretare e creare a propria volta. Così come vuole, così come sa, così come può. Non posso, perciò, raccontare Cages, ma posso condividere il mio Cages, tutte le luci che le vignette hanno acceso, come stelle, e sperare che questo cielo somigli un po’ al vostro. O anche no, che sia diverso, diversissimo, ché l’universo sarebbe ancora più grande.

Iniziamo da Jonhatan, la prima scintilla, mentre un libro inutile brucia nel suo caminetto: “Un libro è una cosa meravigliosa, Leo. Voglio dire, la sua forma, le sue pagine. Per creare queste pagine viene sacrificata una vita e questo ci carica della responsabilità di riempirle con delle idee. È l’unico modo in cui possiamo ridargli quella vita. Queste sono creature sofferenti, mutilate, deturpate”. Così, in poche parole, l’idea, l’intuizione, viene ancorata alla vita, con cui è sempre in forte debito ma a cui a volte fa credito, quando riesce a sintetizzarne l’indescrivibile bellezza.

Le pagine del libro si anneriscono nel fuoco, la colla della rilegatura si dissolve, la copertina si apre e l’opera sboccia: gli spigoli e le scritte, perfino le lettere, diventano spiragli tra le sbarre, la finestra attraverso cui Leo spia Karen, o pentagrammi, quelli che Angel suona ogni sera pregando che bastino a chi invece vuole sentirlo parlare. O i graffi di grafite sul taccuino di Leo, il taccuino stesso, gli stipiti delle porte, i tetti delle case, le scie delle stelle cadenti e più in alto i bordi delle vignette e quelli della pagina, gli intrecci delle mie dita. Gabbie, Cages, Racconti, Pages.

In un attimo capisco, forse, che McKean vuole parlarmi di prigioni della mente, di superfici che intrappolano significati, di parole che ordinano il caos, di creazione. Eppure c’è qualcosa che ancora non riesco ad afferrare; che, peggio, credo inafferrabile.

È dopo pochi passi che il mondo si rovescia di nuovo: una specie di angelo sbiadito si rivolge a una voce fuori campo, un personaggio fino ad allora rimasto nascosto alla luce del sole. Quando la voce chiede il perché di un quadro appeso nel nulla l’angelo risponde: “se l’artista avesse voluto dirci qualcosa, ci avrebbe scritto una lettera! (…) No, fare domande impossibili è ridicolo. L’artista che ha dipinto questo quadro non è presente per spiegarci perché quella figura è lì. Che motivo c’è di chiederlo a questa gente? Non lo sanno. E non lo so neanche io. Guardare il quadro e apprezzarlo è già abbastanza. Il senso di un dipinto è come il senso della vita”. C’è troppa presunzione in queste parole, non è vero? Si capisce che a dirle è un angelo: in paradiso sono troppo faciloni, dei sempliciotti che non capiscono un’acca di interpretazione. Per loro le cose che sono state, sono e saranno hanno il medesimo aspetto; per noi cambiano col movimento del sole e dei pensieri. Noi rincorriamo la volontà del creatore, di qualsiasi creatore, chiedendoci sempre perché e alla fine, perlopiù orfani di risposte ufficiali, ci rassegnamo e assegnamo le nostre ragioni. Mi azzardo a dire che McKean la pensi un po’ come me, che stia dalla parte della voce piuttosto che da quella dell’angelo borioso. L’autore è con gli inquilini di quel condominio rarefatto, un mucchio di personaggi che potrebbero rappresentare l’umanità intera per come, a pochi balloon di distanza, riescono a essere incredibilmente dolci e atrocemente crudeli. Stanchi e commoventi, poi guizzanti e detestabili.

Quindi ok, penso, ci sono: stiamo parlando dell’imponderabilità della creazione ma anche dell’imprescindibilità delle gabbie, ma possibile che si riduca tutto alla solita tirata d’orecchie su quanto il mondo sia bello e non ce ne accorgiamo? Sicuri che si tratti ancora di ciò che involontariamente raccontano tutti i capolavori? Dell’immensità che si tenta di rappresentare solo per capire di non riuscire, di non potere, di non volere incarcerarla?
Spoiler: è così, ma solo in parte. A un certo punto – un altro di quei momenti che ti fanno staccare gli occhi dal libro e fissare il muro per un quarto d’ora – due personaggi si baciano, la notte testimone, e mentre procedono spediti verso l’amore le cornici scompaiono come quando le avevano annientate la musica, la scrittura, i colori; prende la parola un dio cicciottello, appollaiato su una nuvola. Parla con un gatto e chiude con un coupe de téâtre un’opera complessa e incomprensibile almeno tanto quanto semplice e alla portata di tutti. Alla fine le gabbie, nude come gli amanti sorpresi dall’alba sul terrazzo, si rivelano per quello che sono: gabbie nel senso di scheletri, di strutture, di schemi, a volte necessari, altre rinunciabili. Ritmi, accelerazioni, stabilizzazioni, toni di voce e saturazioni di colori, punti e virgole, agenti in missione per conto della creazione, una spirale senza inizio né fine che comincia (!) con il ritmo del battito di un cuore, continua con lo scontrarsi dei corpi e la rivoluzione dei pianeti e finisce (!) nel big bang, che “non solo si ripete, ma anche si rincorre”, un concetto senza senso ma dal significato palese.

Allora il gatto guarda il dio bamboccio e gli dice che no, crede di non aver capito. E mi sento un po’ come lui. Eppure, eppure sarei pronto a giurare, anzi giuro, che ho afferrato, per un secondo, il messaggio, l’idea immensa e bellissima alla base di Cages, e forse sì, dopo aver riflettuto un po’, potrei – condizionale d’obbligo – potrei anche riuscire a scrivervelo in italiano corretto. Tuttavia scelgo di non farlo. Credo che il miglior modo per parlare del librone di McKean sia tentare di restituire un millesimo di quel senso di smarrimento, di soffocamento, di euforia e frenesia, quella “cosa” per cui non c’è nome che proviamo quando ci risvegliamo da un sogno e lo sentiamo scivolare via, lontano. E capiamo che è importante, che è IL sogno, salvo poi, inspiegabilmente, continuare a vivere senza. O almeno così ci imponiamo di credere: lui però è ancora lì, nel posto dove dormono le cose grandi, quelle per cui non abbiamo parole. Per cui non abbiamo parole adatte.

Cages
Autore: Dave McKean
Casa Editrce: MagicPress
Pagine: 496
Prezzo: 35 €

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