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Evgene Bavcar, l’elefante nel villaggio di ciechi | Fuori le Mura

Evgene Bavcar, l’elefante nel villaggio di ciechi

27 febbraio 2012

di Arianna Fraccon

La fotografia e il terzo occhio: guardare o vedere?

“La mia visione del mondo? La racconto attraverso una favola: in un villaggio di ciechi arriva un elefante. Alla sera, di fronte al fuoco i ciechi descrivono l’ elefante. Chi ha toccato il naso dice: è come un lungo tubo. Chi ha toccato le orecchie: è come un tappeto. Chi ha toccato una gamba: è una colonna. Ognuno dava una versione diversa per quello che aveva toccato. Anche noi siamo così: tutti ciechi di fronte all’universo. Io vivo il buio come uno spazio, e in esso creo l’utopia”.

Laurea in filosofia, parla 5 lingue, fotografo, non vedente dall’età di 12 anni. Questo è Evgene  Bavcar, a parole: tutto il resto sono immagini che emozionano, incuriosiscono, infine rispondono, sibilline, alimentando nuove curiosità.

La mostra allestita presso il Museo di Roma in Trastevere e curata da Enrica Viganò, presenta una selezione delle sue famose stampe in bianco e nero e – anteprima assoluta per l’Italia – alcuni dei suoi scatti a colori.

Era previsto un incontro con l’autore che, aimè, è stato annullato per motivi di salute. Caspita, avrei avuto tante cose da chiedergli. Non gli avrei domandato “come” fa a fotografare, quello no, lui detesta sentirselo chiedere ed è evidentemente inutile farlo:  la poesia  del suo lavoro scavalca la mera curiosità nei confronti dell’abusato cliché dell’uomo che “sfida la propria cecità”.
Evgene, classe 1946, preferisce rispondere ai “perché”. Perché le sue foto sono lenti di ingrandimento che portano in superficie ciò che sembrava nascosto persino a chi ci vede “benissimo”!

“…La trascendenza delle immagini che esprimono lo sguardo spirituale del mio terzo occhio”: ecco cosa ci offre Bavcar, una fotografia che guarda da vicino. Una fotografia che nasce da dentro, fatta di una materia spirituale plasmata in “un’orchestra di visioni composte di memorie e sperimentazioni”.
In fondo, se “quello che ha in mano un martello vede solo chiodi”, quello che ha in mano una macchina fotografica non può fare altro che fotografare: gli occhi, in questo caso, sembrano superflui. Vista Tattile, Carezze di luce e Nel fluire del tempo sono solo alcuni esempi dei titoli evocativi che rappresentano le serie in mostra, dove la dialettica fra vicenda del singolo e storia universale si risolve in una complessità di interpretazioni. Ciò che traspare con assoluta certezza e univocità è la diversa e speciale concezione delle coordinate spazio-temporali che l’autore propone: la visione racchiusa nel formato di stampa è dominata dalla “durata interiore”, il tempo che si costruisce lungo il binario dell’identità.

Non stupisce che Bavcar non voglia sentirsi chiedere “come”. E’ una fotografia, la sua, nella quale dimora molto più che una meticolosa tecnica ed un’acuta postproduzione: si tratta di una testimonianza personale e visionaria, influenzata da uno studio umanistico raffinato ed eloquente. Celebri sono i suoi nudi femminili, che superando i luoghi comuni mettono alla prova la duttilità dello spazio e delle sue possibili forme. Sorprendono gli spettri delle mani, sistemate come auree evanescenti a cingere i volti o incastonare i profili dei corpi. Come fossero l’ossessione ricorrente di una ricerca che rivendica continuamente la propria essenza e funzione conoscitiva, queste mani  si impongo sull’orizzonte visivo come testimonianza fugace di qualcosa che è solo illusoriamente tangibile: il limite fra l’arte e l’impossibile.

Evgene Bavcar: Il buio è uno spazio
19 gennaio – 25 marzo 2012, chiuso il lunedì
Museo di Roma in Trastevere, Piazza S.Egidio 1B
Orari: Martedì-domenica 10.00-20.00, la biglietteria chiude un’ora prima
Biglietti € 6,50 intero, € 5,50 ridotto; gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente

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