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Suicide Tuesday di Francesco Leto : Fuori le Mura


Suicide Tuesday di Francesco Leto





29 aprile 2013 |



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Suicide Tuesday_Leto“Suicide Tuesday” è un’espressione che definisce lo stato di torpore, il sentirsi a pezzi dopo un fine settimana fatto di alcol e droghe. È quel martedì nel quale si vorrebbe solo dormire per quanto ci si sente depressi e soli. Si vorrebbe mettere la testa sotto il cuscino e non vedere più nessuno. Perché il sabato si è cercato di dimenticare la propria esistenza attraverso sostanze stupefacenti e la domenica la si è passata a lottare con i postumi di tutti quegli abusi, mentre il lunedì si ha la sensazione che un camion ci abbia investiti. Si intitola proprio Suicide Tuesday l’esordio letterario dell’appena trentenne Francesco Leto, segnalato per concorrere al Premio Strega, ma non rientrato nei 12 pre-finalisti, certo avrebbe meritato.

Il giovane scrittore, calabrese di nascita, acquisisce questo concetto non per raccontarci la storia di un gruppo di persone che ha fatto bisboccia il sabato sera, ma di tre personaggi che devono fare i conti con la perdita. Di se stessi e di chi si è amato. Quello raccontato da Francesco Leto è un “suicide Tuesday” dell’animo dove lo stridore della vita è come una botta che colpisce gli organi vitali e alla fine dopo una lunga lotta e tante ferite ci si può lasciare andare o proseguire la settimana.

Sergio, Matteo e Giulia non si conoscono il sabato quando comincia il loro personale e anomalo ”suicide Tuesday”. Sergio, 41 anni è un architetto con un matrimonio all’apparenza sereno e una figlia di sei anni che adora, ma ha appena scoperto di avere un cancro; Matteo è un fotografo di 27 anni che rimpiange la perdita per un padre che non ha mai conosciuto a fondo. Scrive ad un suo amico inglese lunghe email quando non le scrive all’indirizzo del padre morto; Giulia si è appena laureata in Filosofia e vorrebbe fare un dottorato su Marx, ama la poesia, ma ha dentro di sé un grande dubbio…

Le tre storie si alternano fra il sabato e il martedì, dove quest’ultimo rappresenta la resa dei conti, la scelta di queste tre vite che vengono focalizzate dall’occhio di Lara, la macchina fotografica di Matteo, battezzata in memoria della protagonista de Il dottor Zivago, una delle storie d’amore più struggenti del cinema e della letteratura.

Leto costruisce la storia attraverso una delicatezza multiforme capace di adattarsi alle maglie delle personalità dei tre protagonisti che si alternano nei loro pensieri attraverso dolorosi sentimenti d’amore che riecheggiano come fossero bombardati dal tempo e dallo spazio. Ma in fondo l’abbandono di se stessi del sabato è in qualche modo legato ai ricordi del venerdì, la fine dei rituali della settimana. Così si sente ad esempio Sergio, che si sveglia quel sabato mattina e rammenta un venerdì Santo della sua infanzia passato sul balcone della zia a vedere la processione. E si sente come quel Cristo sulla Croce che passa fra le strade di quel paesino meridionale dove tutto è preparato e pulito per quella giornata che si ripete una volta all’anno come un flusso caleidoscopico di emozioni.

Il giovane autore usa il suo bagaglio letterario con grande attenzione arricchendo il racconto di citazioni consapevoli o meno di una grossa fetta del panorama letterario del Novecento, contestualizzata all’interno della vicenda con grande intelligenza e giocata fra lirismo poetico e crudeltà psicologica, sogni e sensazioni. E il tema del suicidio domina la scena dell’azione attraverso riferimenti, parole, gesti e riporta alla luce quelli di grandi personaggi che hanno arricchito le pagine della nostra memoria letteraria, che proprio attraverso quel gesto hanno reso ancora più vividi i loro scritti. Sono le pagine di Sylvia Plath e Alfonsina Storni, due grandi poetesse americane, di due Americhe completamente diverse, quella statunitense dell’opulenza di Mad Men e quella argentina di matrice socialista e povera a cavallo fra le due guerre mondiali. Rivivono quei due gesti definitivi nella mente, nella nebulosità della notte di Giulia, che viene ricondotta verso un ricordo personale ma del quale non è testimone fisicamente. Perché il suicidio è forse l’unica cosa che davvero si compie in solitudine. Lontano da occhi indiscreti, lontano, lontano, lontano… Una lontananza che non ha definizione, dove palpitano anche i versi di Emily Dickinson.

Sylvia Plath e Alfonsina Storni sono morte ricalcando l’estetica della loro prosa: la terra, da sempre il punto di forza della prima, è stato il suo luogo; l’acqua emblema dell’amato Mar de la Plata, la dimora della seconda. E quest’ultima in fondo si riaggancia alla malattia di Sergio, come lei malato di cancro, anche se la sua scelta sembra molto diversa, pur destinato, in un modo o nell’altro, alla stessa sorte, ma più quotidiana, più lenta. Forse più dolorosa e meno plateale.

Poi c’è Matteo, che come un giovane Camus guarda la foto del padre perduto. È felice quel padre in quella foto. Lo guarda con amore. Quell’uomo che è come se non lo avesse mai conosciuto. E lui, Matteo, gli scrive sperando di avere una risposta; in effetti, inconsapevolmente, la ottiene, capendolo solo quando Sergio e Giulia, separatamente, si presentano alla sua porta per farsi ritrarre e riuscire a loro volta a cristallizzare per sempre le proprie immagini e sofferenze. Sergio vuole regalare il passato alla persona che ama di più al mondo, quella figlia che probabilmente avrebbe altrimenti rimosso il volto del padre sano e bello, sorridente e con quegli occhi neri profondi; Giulia per ricominciare ad avere un futuro, sebbene, probabilmente, sia l’unica persona ad essere morta davvero, più di chi non abita più il proprio corpo. E se Matteo, ritraendola, abbia fotografato la Morte?
Eppure, in quel corollario di tragiche esistenze si nasconde un profondo senso di speranza e amore. Sì, proprio all’interno di questo romanzo, che affronta il tema del suicidio, l’azione più irreversibile della vita. Ma d’altronde “morte” è solo una parola e come tale non fa paura, non è minacciosa, almeno per chi la afferra volontariamente, perché è come se fosse una parola che fa ridere, come ha fatto ridere Federico, che si è lasciato alle spalle la vita insieme all’anno vecchio e ha tradito Giulia col tempo, lei invecchierà e ha paura che lui, sempre bello, un giorno non la riconoscerà.

Suicide Tuesday è ricco di malinconia e sobrietà, forza e inquietudine, gonfio di un lirismo disarmante che affronta i sentimenti con eleganza e determinazione, intransigenza estetica e potenza linguistica.

C’è anche Jennifer Egan in Francesco Leto, che scrive i sentimenti di Matteo tutti sotto forma di email, come la Egan ne Il tempo è un bastardo lo aveva fatto in Power Point. È la scrittura che evolve e si ristruttura, si reinventa, forma nuovi linguaggi, nuove forme per raccontare un mondo fatto di impotenza emotiva, ma anche di logica, del riscatto di una scelta, quella della vita. Perché in fondo anche Sylvia Plath, Alfonsina Storni e Federico hanno scelto la vita, una sua forma incompresa.

Le parole, nel romanzo di Leto, sono come il colore nella fotografia: arrivano e violentano gli sguardi dei protagonisti, quegli occhi turbati e innocenti. E sono come un rosso fiamma che brucia e si prostra come il corpo sotto la stretta del tempo, ingiallisce fino a diventare polvere. La carta, cornice e involucro delle storie, perde la lucentezza esteriore dopo essere stata bianca e splendete. Ma gli occhi dei personaggi sono la loro essenza, unica cosa immutabile, eternamente giovane e simbolo di purezza. Ma il rosso che corrode i corpi, o meglio le linee di quei corpi e di quei volti, è la quintessenza di ciò che questi hanno subito dagli anni, dalla natura della vita, dalla presenza di un dolore. Scovando così il punto di rosso che pesa sull’esistenza di tutti noi.

Suicide Tuesday
Autore: Francesco Leto
Casa editrice: Giulio Perrone Editore, 2013
Collana: Hinc
Pagine: 208
Prezzo: 13,00 €



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Category: Libri