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Mischiare le carte, Uccidere il padre | Fuori le Mura


Mischiare le carte, Uccidere il padre

9 luglio 2012

di Flavio Camilli

Amélie Nothomb e il nuovo romanzo. Magia e crescita, corpo e scrittura. Tutto nella normalità (nothombiana)

Il quindicenne Joe Whip, aspirante prestigiatore dal talento sorprendente, abbandonato dalla madre e accolto da Norman Terence, a sua volta mago di enorme capacità e risaputa fama, è un protagonista tanto stilizzato quando efficace.
Tra padre e figlio (entrambi adottivi), lo spettro della competizione e una donna-madre, Christina, danzatrice del fuoco e compagna di Norman. Mentre i due condividono un rapporto di coppia sui generis e totale, dove anche il silenzio diviene valore, Joe arde a causa della pubertà, dell’ambizione e di un amore creduto puro, ma che potrebbe essere solo un’ossessione. Peggio, una ritorsione.
Gli anni lo vedono crescere, divenire abile e disinvolto con le mani, le carte, la malizia. Las Vegas e l’età adulta lo attendono: il taglio di un cordone ombelicale costruito sul campo, fatto di meriti e onestà, affetto e dedizione, però, si ritorcerà solo contro Norman e Christina. L’indifferenza di Joe è forse follia, o piuttosto un piano studiato a tavolino per affondare la lama nel petto del genitore?

Straniante, surreale, breve. Nothombiano, per dirla con un neologismo. Uccidere il padre, ultima prova della molto osannata Amélie Nothomb è un romanzetto piacevole che non tradisce la natura della scrittura e i temi cari all’autrice e al suo cappello.
Data la struttura semplice e la lunghezza esigua, l’approfondimento è bandito e personaggi e eventi sono descritti nelle componenti necessarie a renderli funzionali allo scontro non solo generazionale tra padre e figlio. I caratteri sono agli antipodi (tanto sereno, sicuro, buono Norman tanto inquieto, desideroso, impaziente Joe) con l’unica donna (a parte il cameo iniziale della stessa Nothomb, prassi) a fare da fulcro, con la doppia funzione di bilanciare gli opposti e giustificare, a causa di movimenti impercettibili, l’oscillazione narrativa.
Una storia che mette in relazione la magia intesa come deformazione della realtà con la crescita, la costruzione dell’identità e soprattutto l’osservazione del corpo proprio e altrui è indubbiamente un’occasione per tornare a parlare di scrittura, sovrapponendola, con movimento retorico forse banale ma indubbiamente opportuno, all’arte di “far dubitare gli altri della realtà”.
Si tratta, in fondo, di uno dei compiti della narrazione: creare un espediente in cui è insita ma non detta una certa componente empatica per riferirsi poi, tramite fatti, descrizioni, messe in scena assunte dal lettore come potenzialmente reali, ad assoluti e categorie su cui l’autore sente il bisogno di esprimersi. Se non è questo un gioco di mascheramenti, nascondigli, verità taciute e mezogne presto svelate non sappiamo cosa lo sia.

La componente del dubbio, l’instabilità e l’insicurezza dell’affetto e della stima, spesso supposta dovuta grazie al legame genetico, è ben restituita anche sul livello più superficiale del racconto, in cui Nothomb si diverte a costruire scene ispirate dove a farla da padrone è una prosa compiaciuta a ragione (il Burning Man è un bell’esempio) ma mai invadenti.

La scrittura è prevedibilmente asciutta, sintetica, carica di sottintesi, intensa. Nonostante la velocità di lettura, il senso di incompiutezza e il solo apparente sospetto di mancanza di scopo, Uccidere il padre è invece un’opera coesa con l’effetto di un gioco di prestigio: se ne avvertono le conseguenze (stupore e tremori, imbarazzo, forse rabbia), senza saper dire cosa le ha provocate. Forse si potrebbe dimenticare altrettanto facilmente, all’arrivo di un incantesimo più complesso e stupefacente, ma lo sa anche Amélie: è difficile che l’appagamento – sì, anche letterario – duri più di un istante.

Uccidere il padre
Tuer le père
Autrice: Amélie Nothomb
Traduzione: Monica Capuani
Casa Editrice: Voland
Pagine: 96
Prezzo: 9 €

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