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Tuesday 23 April 2024
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Altrimenti che essere di Emmanuel Levinas: si può fingere di parlare greco? | Fuori le Mura

Redivivo grazie alla Jaca Book il tentativo del filosofo franco-lituano di scovare l’eccezione nel regno dell’essere parmenideo

 

“Semplicemente i concetti fondatori
della filosofia sono prima di tutto greci
e non sarebbe possibile filosofare
o pronunciare la filosofia fuori dal loro elemento”

(Jacques Derrida, Violenza e metafisica, contenuto in La scrittura e la differenza)

“«Noi vorremmo avviarci verso un pluralismo che non tenda a fondersi in unità; e se la cosa e mai possibile, rompere con Parmenide» (Emmanuel Levinas, Totalità e infinito, ndr).
Levinas ci esorta dunque a un secondo parricidio. È necessario uccidere il padre greco che ci impone tuttora la sua legge, gesto a cui un Greco come Platone non ha mai potuto sinceramente risolversi differendolo
in un delitto allucinatorio. Allucinazione nell’allucinazione già della parola. Ma quello che qui un Greco non ha potuto fare, come riuscirà a farlo un non-Greco se non travestendosi da Greco, parlando greco, fingendo di parlare greco, per potersi avvicinare al re? E, dato che si tratta di uccidere una parola, si potrà mai sapere chi è l’ultima vittima di questo inganno? Si può fingere di parlare una lingua?”

L’interrogativo che Jacques Derrida pone a Emmanuel Levinas dà il là all’opera di cui vorremo parlare – con tutte le lacune che la brevità di un articolo impone – ovvero Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, edito da Jaca Book nel 2011. Sembra cosa di poco conto, ma in quella domanda finale, in quel “Si può fingere di parlare una lingua?”, è contenuta una poderosa e ineludibile critica al pensiero levinassiano. L’evasione dal regime dell’essere –  instaurato da Parmenide tra il VI e il V secolo a.c. in filosofia e ritenuto ancora vigente dal pensatore franco-lituano- tentata da Levinas in Totalità e infinito è messa radicalmente in questione da quella velenosa serie di domande di Jacques Derrida.

L’essere parmenideo, per chi non avesse praticità con il linguaggio tecnico filosofico, può essere immaginato, dal punto di vista levinassiano, come un curioso mostro onnivoro, che riassorbe in sè ogni differenza. È l’identico, il sempre uguale, l’omogeneo che divora tutto ciò che lo nega, tutto ciò che si pone come diverso, tutto ciò che a prima vista può essere considerato altro. È possibile parlare di alterità nella misura in cui questa viene ricondotta immediatamente all’essere, cioè al regno dell’uguaglianza. Per questo Parmenide può dormire sonni tranquilli con la sua proposizione a prova di parricidio “L’essere è, il non essere non è”, che sembra tautologica, autoevidente, quasi lapalissiana, ma che nella sua autoreferenzialità esprime quell’uguaglianza in cui è difficile, se non impossibile, trovare una reale differenza, cioè una differenza che non si riferisca neanche negativamente a quel regime che ha il mostruoso potere, non appena evocato, di risolvere tutto nella sua presenza, di ricondurre tutto a un’identità assoluta e inevadibile.

Inoltre, come giustamente sottolinea Derrida, l’essere parla greco. Il linguaggio della filosofia è greco per nascita, per origine, il linguaggio della filosofia ha un fondamento greco, il linguaggio della filosofia ha un arché, un principio, un inizio che è greco fino al midollo. Qual è allora il problema di Levinas? Anche lui in Totalità e infinito ha parlato greco. Ha utilizzato termini come medesimo, altro, totalità, infinito, ecc. Proprio come l’essere, proprio come il resto dei filosofi. E allora come si può pretendere di parlare una lingua che è irrimediabilmente contaminata dalla presenza dell’essere, una lingua in cui non c’è via d’uscita, una lingua che è un sistema chiuso nel gioco della totalità e con le stesse parole parlare dell’infinito, cioè di ciò che dovrebbe rompere quella stessa totalità? Così si resta nella chiusura. A meno che non si possa fingere di parlare quella lingua, a meno che Levinas non sia un trasformista, un prestigiatore d’altri tempi, che si traveste da greco, per arrivare in prossimità di Re Parmenide e sferrare quel colpo mortale che neanche il grande Platone, a detta sia di Levinas che di Derrida, è riuscito a sferrare, perché lui parlava greco come lingua madre, perché era impossibilitato a sfuggire al regime dell’essere, nonostante inserisca nei cinque generi sommi del Sofista, dialogo in cui c’è il primo tentativo di parricidio (o di regicidio a questo punto) ai danni di Parmenide, il diverso e il movimento, cosa che il padre non avrebbe certo accettato. Ovviamente però ci sono anche la stasi e l’identità, contrari dei primi, c’è anche l’essere, che non poteva mancare perché è il sempre presente. Anche un bambino però si accorgerebbe se i generi sono cinque, sistemati perlopiù a coppie di contrari, i conti non tornano, c’è un grande assente, un’assenza che riecheggia appunto: manca il genere opposto all’essere. Ma abbiamo già definito l’essere come quel mostro onnivoro che riconduce a identità ogni differenza. Come si fa a pensare l’altro dell’essere? Come si può pensare, con le nostre parole dannatamente greche, un altrimenti che essere?

“Non essere altrimenti, ma altrimenti che essere”, dice Levinas nell’incipit del libro in questione, continuando a evocare quel fantasma per affrontarlo faccia a faccia, vis-à-vis, come direbbe lui da buon francofono. In Altrimenti che essere la sfida di Levinas procede su molteplici piani, ma resta sempre una sfida a quello che Heidegger ha definito il concetto più vuoto e generale: ovvero l’essere. Si tratta anzitutto di trovare un altro linguaggio, di non parlare più greco e questo è ciò che rende difficile la comprensione del testo anche agli addetti ai lavori. La questione di Derrida è presa così sul serio che non possiamo considerare Altrimenti che essere semplicemente come un’appendice di Totalità e infinito, piuttosto come un tentativo di ripensare delle problematiche comuni con un linguaggio, quindi un modo di pensare, che non sia quello dell’ontologia greco-tedesca (anche se si dovrà pur parlare dell’ontologia greco-tedesca, ci si dovrà pur muovere all’interno dell’ontologia greco-tedesca se non si vuole semplicemente negare il concetto di essere e come negazione, essere immediatamente fagocitati di nuovo nel vortice da Levinas descritto).

Forse ci siamo dilungati un po’ troppo senza affrontare da vicino nessuno dei molti temi presenti all’interno del saggio. Non è un gran risultato per una recensione: speriamo però di averne offerto perlomeno una buona presentazione. Tuttavia c’è un tema ineludibile, di cui ci sentiamo costretti a parlare al lettore. Anzitutto Levinas, individua sin dalla nota preliminare del libro la possibilità di trovare nella soggettività l’eccezione all’essere – non una negazione – il surplus che eccederebbe superlativamente il regno instaurato da Parmenide. Ma come ripensa Levinas questa soggettività? Vi consigliamo vivamente di adottare una chiave di lettura particolarmente attenta a tutti i termini che ineriscono il soggetto come: psichismo, ricorrenza, accusativo, carne, sensibilità e i molti altri presenti nel testo. Il soggetto di Levinas in Altrimenti che essere, accennato in due parole, è letteralmente un sub-jectum, cioè un assoggettato, un assediato che non ha vie di scampo. Ma è proprio questo che permetterà al filosofo lituano di pensare una responsabilità che viene prima di ogni libertà, una responsabilità an-archica (cioè senza principio, senza fondamento), una chiamata a cui non è possibile non rispondere e con essa possibilità del Bene e della giustizia nel regno tirannico dell’essere e della guerra.

 

Altrimenti che essere
o al di là dell’essenza
Autrement qu’être
ou Au-Delà de l’essence
Autore:Emmanuel Levinas
Traduttore: Silvano Petrosino
Casa editrice: Jaca book, 2011
Collana: Di Fronte e Attraverso
Pagine: 264
Prezzo: 21 €