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“Confessioni” di un rifugiato: l’Odissea senza nostos : Fuori le Mura


“Confessioni” di un rifugiato: l’Odissea senza nostos





18 giugno 2012 |



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Leggi tutte le interviste dello speciale:

“Confessioni” di un rifugiato: Gasim, il Darfur e Roma
“Confessioni” di un rifugiato: il Camerun di Williams e il diritto di cittadinanza
“Confessioni” di un rifugiato: la richiesta d’asilo di Matteo il senegalese
“Confessioni” di un rifugiato: dal cinema di Mogadiscio alle carceri libiche

La storia dei quattro rifugiati che hanno deciso di testimoniare i loro vissuti, per il momento, è un’Odissea senza nostos, un viaggio oltre le Colonne d’Ercole in cui più di qualche compagno è morto. Spesso tutto ciò che desiderano è rivedere le persone lasciate nelle rispettive terre d’origine. Ognuno di loro ha la sua Penelope, un Telemaco mai visto in faccia e il fido Argo che lo aspetta nel luogo da cui è partito. Il filo rosso che lega queste storie è il fatto che sono iniziate tutte nel momento in cui i protagonisti hanno rischiato la vita, cosa che li tormenta tutt’oggi.

Quello che abbiamo cercato di fare è fuggire il pietismo d’accatto del “poverini”: volevamo far parlare soprattutto loro, riducendo all’osso le domande, nel tentativo di sottolineare quanto sono importanti alcune conquiste – come la Convenzione di Ginevra – quanto c’è di sbagliato nelle attuali legislazioni – ma soprattutto nell’applicazione delle leggi vigenti – e quanto ancora ci sarebbe da fare. Quel “confessioni” incastonato tra virgolette non va inteso nel senso di un’ammissione di colpa, ma nel suo significato più profondo: testimonianza di un vissuto. Perché i lettori possano cercare di comprendere cosa c’è dietro una richiesta d’asilo prima ancora di formulare un giudizio.

Queste interviste, vogliamo ribadirlo, sono dedicate a tutti quei rifugiati che hanno vissuto situazioni simili a quelle di Gasim, Matteo, Williams ed Aweis ma non ne hanno potuto parlare, o, pur potendolo fare, hanno deciso di rimanere in silenzio. A tutti quelli che oggi non possono raccontare la loro storia perché sono sepolti in fondo al Mar Mediterraneo. Migliaia di morti che non avranno una lapide, migliaia di madri che non avranno una tomba da piangere per i loro figli. A tutti coloro che sono ancora nelle carceri libiche e a coloro che vivono e muoiono in paesi falcidiati da guerre e carestie. A coloro che sono stati respinti, dopo aver affrontato un viaggio lungo e pericoloso, come quelli che abbiamo descritto, per raggiungere il “civilissimo” occidente. A coloro il cui viaggio non avrà più né un nostos, né un qualsiasi punto d’approdo, a coloro che sono morti fuggendo dalla miseria verso l’ignoto: vivendo ora dopo ora, calcando il suolo come se ogni passo potesse essere l’ultimo.

Una dedica speciale, però, vogliamo farla alle donne rifugiate. Avrete notato la grave assenza di rappresentanti del sesso femminile tra gli intervistati: non ci arroghiamo la presunzione di sapere perché alcune donne non hanno voluto parlare con noi e siamo convinti che ci sarebbero molte rifugiate felici, oggi, di raccontare la propria storia. Tuttavia non ne abbiamo trovate e vogliamo qui semplicemente avanzare l’ipotesi che l’oppressione che alcune di loro subiscono nei paesi d’origine possa tramutarsi in qualcosa di simile a un blocco, possa venire introiettata e possa impedire il fluire delle parole. Solo un’ipotesi, tutto qui: per non offrire un’analisi parziale al lettore, per testimoniare che esistono anche delle rifugiate in Italia, con i loro vissuti e i loro problemi.

La conclusione più scontata, ma anche la più utile, consiste nel ricordare a tutti quanti che l’articolo 1 A della Convenzione di Ginevra sancisce che lo status di rifugiato è accessibile “a chiunque (…) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.

Un memento per chi ci governa, ma soprattutto per chi ci ha governato, potrebbe invece essere l’articolo 33 della suddetta convenzione “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Il nostro ricordo non può che andare ancora una volta a tutti coloro che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo lo scorso anno, almeno 1500 anime che si dondolano ancora tra i flutti.




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Category: Attualità, Roma