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Les chevaux de Dieu di Nabil Ayouch | Fuori le Mura

Les chevaux de Dieu di Nabil Ayouch

20 maggio 2012

di Giovanna Barreca

Il regista franco-marocchino, con il racconto fedele e controllato del gruppo di Kamikaze di Casablanca del 2003, compie un viaggio nella coscienza collettiva di un mondo che deve prendersi cura dei suoi figli dall’infanzia perché il degrado, la violenza, l’abbandono conosciuti da bambini non vengano strumentalizzati e trasformati in arma di distruzione di massa.

“Volate, cavalli di Dio” amava ripetere Bin Laden, strumentalizzando le parole del profeta Maometto per incitare alla guerra contro l’Occidente. L’autore franco-marocchino Nabil Ayouch, chiama il suo film Les chevaux de Dieu – presente nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2012 – perché ha scelto, coraggiosamente, di affrontare una pagina tragica di quella guerra che ha seminato terrore anche nel suo Paese e raccontare dei moderni cavalli di Dio, vittime anch’esse di quella strategia omicida.

Nel 2003, sei ragazzi provenienti dalla Bidonville di Casablanca si fecero saltare in aria provocando la morte di 42 persone. Il regista, in maniera molto istintiva, dopo il fatto, si recò sul posto per incontrare i sopravvissuti alla strage e da quelle testimonianze nacque un cortometraggio. Poi capì che il suo era stato un lavoro giornalistico parziale, che non era stato capace di mettersi alla giusta distanza emotiva dai fatti, per poter affrontare e analizzare l’avvenimento. “Col tempo il mio sentimento di frustrazione si è trasformato in qualcos’altro e ho capito che le vittime stavano da entrambe le parti. Così sono tornato alla Bidonville e ho fatto un lungo lavoro, quasi antropologico. Ho parlato con la gente, ho incontrato i soggetti delle associazioni arrivate a operare nella zona” dichiara l’autore che, acquisendo anche i diritti sul libro Les étoiles de Sidi Moumen di Mahi Binidine, riesce a creare una sceneggiatura omogenea per un film che sa emozionare e riflettere in maniera costruttiva sul nostro tempo e su quello che è il rapporto con l’Oriente del mondo.

Il film focalizza la narrazione su Yachine e Hamid, fratelli sullo schermo e anche nella vita (Abdelhakim e Abdelilah Rachid gli interpreti) che nascono e crescono nella Bidonville di Sidi Moumen e che nel luglio 1994, ancora bambini giocano a calcio. Hamid – il più piccolo e fragile – sogna, tra le mani la foto di un calciatore russo amato, di cambiar vita, di andar via e riscattarsi dalla miseria. Yachine invece, poco più grande – già in quel campetto di gioco e poi in una scena molto dura quando ad un matrimonio, sotto l’effetto dell’alcool, sodomizza un coetaneo -, è violento, prepotente, non conosce altra forma di comunicazione e di rapporto con l’altro. Il fratello minore lo teme e lo ama, lo guarda far del male al compagno (un movimento di macchina minimale passa da Yachine che se ne va mentre Hamid è paralizzato sul divano, con gli occhi fissi che guardano il ragazzino violentato ancora sdraiato a terra a pochi centimetri dai suoi piedi), scagliarsi sempre contro tutti senza essere in grado di reagire. La forza che esercita su di lui è così totale che quando nel 1999, dopo aver passato alcuni anni in carcere, Yachine torna, apparentemente cambiato (in realtà ha trovato in carcere l’Imam Abou Zoubeir che ha saputo veicolare la sua voglia di vendetta contro il mondo e la vita e il suo bisogno di una figura di riferimento paterna) si lascia convincere ad entrare anch’egli nel gruppo di seguaci della guida spirituale che nel 2003 li sceglierà per immolarsi alla causa.

Il film si ferma qui, al marzo di quell’anno, alla loro partenza per la morte certa in nome di un ideale che gli è stato fatto credere essere più alto e importante della vita stessa. Ad Ayouch, che era già stato nella Bidonville della capitale marocchina per girare l’intenso Ali Zaoua (2000) – puntando sempre l’attenzione sui bambini di strada -, interessava tornare sui soggetti, su quello che aveva portato alla strage. Ricostruendo l’infanzia, l’adolescenza dei ragazzi (tutti vent’enni nel momento della morte) riesce a compiere un discorso serio e controllato per raccontare anche una generazione che, come ha sempre ripetuto ai suoi critici in patria, è stupido negare che esista*.
Gli episodi emblematici che sceglie per la narrazione del percorso sono talmente forti che era inutile compiere scelte tecnico-espressive che cercassero di aumentare la drammaticità delle situazioni; punta sull’armonizzazione di tutti gli elementi, riuscendo a rendere credibile il racconto e coinvolgendo emotivamente lo spettatore, come dimostra l’intenso silenzio sulle didascalie finali che ha preceduto il lunghissimo applauso alla fine della proiezione. Quindi messa in scena minimale che fa un uso espressivo soprattutto della luce e sa sfruttare al massimo, attraverso campi medi, l’ambiente (Bidonville ricostruita), il suo degrado per far capire come sia stato l’habitat perfetto per far nascere il germe di una violenza così distruttiva. L’ambiente e la totale mancanza di una famiglia, soprattutto della figura paterna (i due fratelli hanno una madre che passa il tempo a guardare le telenovelas e un padre depresso e assente) fanno gioco facile a qualsiasi fantomatica guida che probabilmente si sceglie di seguire non tanto e non solo per vera convinzione ma soprattutto per ignoranza e perché sopperisce alla mancanza forte di una figura di riferimento. Inoltre sono intense le interpretazioni dei fratelli Rachid, in grado di trasmettere i diversi stati d’animo che attraversano i loro personaggi, esattamente come azzeccate quelle di tutti gli altri personaggi.

Les chevaux de Dieu
Regia: Nabil Ayouch
Produzione: Marocco, Francia, Belgio 2012
Durata: 115’
Cast: Abdelhakim e Abdelilah Rachid, Hamza Souidek, Ahmed El Idrissi el Amrani
Musica: Malvina Mainier
Montaggio: Damien Keyeux

*Già con Un attimo di oscurità raccontò le violenze anche sessuali presenti nel paese tra giovani e venne accusato di “violare l’etica e la legge islamica”.

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