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La rivoluzione globale, storia del comunismo internazionale | Fuori le Mura

La rivoluzione globale, storia del comunismo internazionale

30 aprile 2012

di Federico Vignali

Presentato alla Fondazione Gramsci di Roma la nuova pubblicazione dello storico Silvio Pons

la copertina del nuovo libro di Silvio Pons

La rivoluzione Globale, Einaudi

L’uomo cresce con il crescere dei suoi scopi scriveva Schiller. La massima del poeta tedesco sembra animare a fondo tutta l’opera più recente dello storico Silvio Pons che dopo il ciclopico Dizionario del comunismo nel XX secolo del 2007 si confronta con la portata di un tema assolutamente sconfinato anche nel suo nuovo testo La rivoluzione Globale, storia del comunismo internazionale dal 1917 al 1991.

In un volume che si pone nell’ottica onnicomprensiva, ma ampiamente accessibile cara ad Hobsbawn, Pons redige un analisi ambiziosa e dal respiro assolutamente internazionale, ma anche destinata ad affermarsi ben oltre i circuiti accademici grazie anche ad una politica distributiva decisamente incisiva di Einaudi.

In un quadro tipicamente uniformato come quello di tutte le pubblicazioni dei docenti ordinari di storia contemporanea in italia (una ricerca del Professore Mastogregori per la Sissco di qualche anno fa mostrava come il 96% di tutti gli studi era dedicato alla storia locale e solo il 3,3% copriva le vicende successive al 1948) Pons si pone chiaramente in controtendenza.  L’ampiezza e la complessità del tema trattato – d’altro canto – si prestano ad esporre inevitabilmente l’autore anche a tutta una serie di obiezioni di fondo in merito alla completezza del suo punto di vista o alla tenuta generale del metodo alla base del suo lavoro.

La presentazione de La Rivoluzione Globale alla Fondazione Gramsci di Roma lo scorso 23 Aprile in questo senso è stata l’occasione ideale per fare chiarezza sulla impostazione che ha voluto dare Pons alla sua opera, ma anche per allargare la prospettiva della discussione grazie all’intervento di altri storici affermati come Andrea Graziosi, Federico Romero e Giuseppe Vacca. Il punto di partenza del dibattito si è mosso dalle riflessione su come il movimento comunista abbia realmente anticipato alcuni aspetti di quelle che ora intendiamo comunemente come globalizzazione precorrendo anche certe forme di espansione territoriale del capitalismo stretto.

Winston Churchill ironizzava sul fatto che a ottant’anni sarebbe morto non sapendo che esisteva davvero un fottuto paese che si chiamava Cambogia. L’Unione sovietica in questo senso ne era perfettamente al corrente sin dagli anni ’20 e nell’impeto della propagazione dello spirito rivoluzionario bolscevico non solo ha supportato e alimentato centinaia di movimenti di protesta in tutto il mondo, ma anche costituito ex novo un modello di governo centralizzato a decine di paesi che uscivano finalmente dall’epoca coloniale e dovevao darsi una forma di organizzazione politica.  Oltre al caso di tutti gli stati africani che si affrancavano dall’Impero portoghese come il Mozambico o Angola ha fatto scuola in questo senso l’esperienza della confederazione dell’India di Nehru. Il mito dello spirito internazionalista dell’Urss non è stato certo sempre coerente e privo di contraddizioni. Da un lato infatti la Russia ha investito moltissimo nella creazione del mito rigoroso della Stato come promotore dello sviluppo, intervenendo materialmente nella costruzione di Dighe e Centrali Elettriche in Cina ed India imponendoli – tra le altre cose – come nuovi templi del progresso in paesi che versavano in economie poverissime. Dall’altro però ha anche avviato un sistema che alla lunga le sarebbe ritorso contro.

Una diga nella Cina di Deng Xiaoping

Come ha ricordato il professore Graziosi del resto, gli aspetti che oggi rimangono dell’Urss sono in assoluto le cose meno marxiste del comunismo. Promovendo e stimolando la rivolta anticoloniale dei paesi in via di sviluppo la Russia infatti ha promosso uno spirito nazionalista che alla lunga poi non poteva più tenere sotto il controllo della propria influenza. Tanto più che a differenza degli Stati Uniti non è mai stata in grado di impostare un rapporto di scambio commerciale con i paesi del suo blocco per favorirne la crescita o lo sviluppo delle economie. Anzi, il modello capitalista proprio per costituire un alternativa il più possibile appetibile rispetto alla dimensione comunista ha impostato tutta la sua dialettica nel paradigma assolutista del dialogo commerciale e consumista.

Secondo Pons, se  il declino e il collasso dell’Urss e del movimento comunista si spiegano anche in ragione di alcune scelte in politica estera con la Cina, il Brasile e l’India, gran parte delle ragioni della crisi di tutto il modello politico e culturale del marxismo risiedono logicamente nel cuore dell’Europa e nei cardini della Piazza Rossa. Se Dubček cominciò a parlare di socialismo dal volto umano del resto significa che il modello sovietico mostrò sin troppi aspetti rigidi e autoritari. Rimandando alla lettura del libro tutti gli approfondimenti più interessanti per l’interpretazione di questo movimento, l’incontro con Romero, Vacca e Graziosi ha rappresentato sicuramente un momento di analisi preziosa, soprattutto per contestualizzare l’ascesa dell’Urss nell’ultimissimo momento di espansione di quel boom economico dell’Europa che parte dal ’600 e che negli ultimi anni del secolo scorso ha vissuto le fasi terminali. Stando a quanto appreso, sarebbe utile collocare la crisi della Russia in un collasso generale di tutta l’Europa, che malgrado l’Unione e  Maastricht è sempre più destinata a ricoprire un ruolo marginale nel futuro della storia mondiale.

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