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Cronache del rum | Fuori le Mura

Cronache del rum

30 aprile 2012

di Andrea Scutellà

Pubblicato, grazie a Johnny Depp, il romanzo postumo dell’autore del libro che ha ispirato Paura e delirio a Las Vegas: un lucido viaggio alcolico nel giornalismo caraibico, trasformato recentemente nel film The rum diary dal regista Bruce Robinson

Veduta del quartiere “la Perla” di San Juan

“Cioè… Io non ero lì quando è successo.
Ma se conosci un po’ Thompson questa storia è abbastanza credibile”

(Johnny Depp, al Late Show di David Letterman)

La semplice frase di Depp riportata in epigrafe basterebbe a recensire questo libro fino alla fine secoli. Purtroppo però mi hanno detto di inventarmi qualcosa, quindi vediamo di esplicitarla. Il punto, abbiamo detto, è che noi non c’eravamo. Nessuno di noi, presumo, è stato in quella San Juan (Puerto Rico) della fine degli anni ’50: in quei tempi in cui dio si stava per ricordare di quell’isola caraibica dal clima afoso, quel posto di cui fino a poco prima aveva dimenticato l’esistenza, ma che in quel preciso istante era già tornato a cercare sul mappamondo. E mentre dio la cercava affannosamente, i palazzinari erano già all’opera. Cominciavano a costruire Hotel di lusso e Lounge Bar per turisti americani dalla pelle flaccida e bianchiccia.

Noi non siamo stati lì è vero. Ma Thompson invece c’è stato. Ha raccontato dei colori, del movimento, dei suoni d’una città in cui il tempo non era ancora cominciato, ma stava per avere inizio. Un bravo giornalista dedito al fatto non avrebbe mai potuto narrare una storia del genere; per questo, come un vero fuoriclasse del giornalismo, il Dottor Gonzo è stato capace non solo di restituirci i fatti, ma anche di farci vivere – per un lampo, un baleno, 275 pagine che scorrono come una freccia dritta al bersaglio – la sua San Juan. Città composta come un puzzle disordinato, con i pezzi incastrati a suon di martellate e proprio i suoni, nell’ultima parte del romanzo-reportage, danno vita a uno pezzi letterariamente più alti dell’intera narrazione “I suoni di una notte di San Juan che si perdono attraverso la città negli strati di aria umida; suoni di vita e di movimento, gente che si prepara e gente che si arrende, il suono di chi spera e il suono di chi tiene duro e dietro a tutto questo il placido ticchettio mortale di migliaia di orologi” – e indovinate un po’– ” il suono solitario del tempo che passa in una lunga notte carabaica”. Proprio il tempo è l’altro grande tema del romanzo: nell’isola sembra bloccato, ma per i personaggi inesorabilmente passa, come quell’orologio all’apparenza completamente fermo – che Thompson dice di aver posseduto ai tempi del liceo – ma che in un sol colpo scattava di quattro o cinque minuti avanti. Né io, né voi, né Johnny Depp, né David Letterman eravamo lì. Ma Hunter S. Thompson c’è stato e ha cercato di portarci in quel luogo, in quel preciso ticchettare d’orologio che segnava uno scatto in avanti micidiale dell’ora.

Hunter S. Thompson

Da quelle parti, però, giravano degli strani personaggi. Dei giornalisti beoni, “avvinazzati”, come piaceva definirli al direttore Lotterman – proprietario di quel fogliaccio che era il “San Juan Daily News” – che forse era troppo severo con quella banda di scriteriati e fuori di testa.  Sono quelli che lo stesso scrittore americano definisce “giornalisti randagi”: alcuni di loro erano solo dei degenerati, altri dei degenerati con talento, ma tutti sicuramente diversi dal bravo giornalista dedito al fatto di cui sopra. Vagabondavano ai margini dell’industria della carta stampata, finivano per essere i corrispondenti ideali dai posti di cui dio si stava per ricordare. Nomadi per eccellenza, scrocconi per necessità, si accasavano momentaneamente in ogni paese in cui c’era un giornale in lingua inglese su cui scrivere. Vivevano, come scrive Thompson, nella costante tensione tra “un idealismo inquieto, da un lato, e l’incombere di un destino tragico dall’altro”. Da una parte attendevano l’Occasione, quella che avrebbe confermato che scalciando e sgomitando il loro istinto li avrebbe portati in cima. Dall’altra sedevano sull’orlo di un baratro, dondolandosi sulle due gambe del loro sgabello da bar, come bambini attratti dalla caduta all’indietro.

Giornalisti sempre più rari questi, che andrebbero tutelati in qualche oasi del WWF. Perché la nostra professione si sta perdendo tra l’asetticità dei lanci d’agenzia – le news dell’Ansa – e la pigrizia cronica del lettore, che non ha più la pazienza di farsi condurre all’interno di una città attraverso impessioni personali, suoni, colori, movimento e narrazione. Lettori che spesso “sharano” su facebook o “twittano” – dio onnipotente mi perdoni per aver usato questi verbi – un articolo senza neanche averlo letto, lettori che spesso si lamentano dei giornalisti e del giornalismo di oggi, che sputano sentenze su una categoria abietta e su una professione svilita, ma che in segreto, nell’ombra delle loro camerette, preferiscono di gran lunga ruminare le notizie dell’Ansa, che non leggere un articolo di Thompson. Per fortuna, c’è ancora un lumicino di speranza. Perché così come non tutti i giornalisti sono Minzolini, non tutti i lettori sono Super Vicky, la robottina della famosa serie TV americana che consumava un libro in 30 secondi.

Cronache del rum
The rum diary
Autore: Hunter S. Thompson
Traduttore: Marco Rossari
Casa editrice: Dalai Editore, 2011
Collana: I Tascabili
Pagine: 275
Prezzo: 8,90 €

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