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Marco Pozzi: “L’anoressia è la cartina tornasole della crisi del nostro tempo” | Fuori le Mura

Marco Pozzi: “L’anoressia è la cartina tornasole della crisi del nostro tempo”

23 aprile 2012

di Giuseppina Genovese

Maledimiele, quando l’anoressia diventa il male di vivere

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A due anni dalle riprese, è stato presentato alla Casa del Cinema Maledimiele, secondo lungometraggio del giovane e promettente regista Marco Pozzi, già autore di documentari di successo. Il film era già stato presentato alla 67ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ricevendo il premio speciale del Fiuggi Family Festival; nell’aprile 2011 si è classificato al primo posto al Filmspray diFirenze 2011. Benedetta Gargari, protagonista assoluta, si è aggiudicata lo scorso Ottobre il premio come migliore attrice protagonista nel corso del 29° Festival del Cinema Italiano di Annecy. Grandi soddisfazioni per la casa di produzione, ovvero la 3per che dal 2009, anno della sua nascita, si occupa di realizzare filmati istituzionali e commerciali per l’industria e per enti pubblici. Anche Maledimiele, come dichiarato a più riprese nel corso della conferenza stampa, è stato e sarà ancora proposto nelle scuole italiane, per far aprire gli occhi su una patologia che è  una delle cause maggiori di mortalità tra i giovani, ma che ancora è volutamente sottovalutata dai mass media, ancora fagocitati dall’apparenza.

Cosa dite sulla realizzazione di una pellicola indipendente che tocca un tema così delicato?

Marco Pozzi: Il film nasce da un’operazione di assoluta indipendenza, e la sua presenza sul mercato sarà inevitabilmente condizionata da ciò. Stiamo creando un progetto di distribuzione collaterale nelle scuole, secondo noi questo non è un film che dovrebbe esaurire la sua presenza con l’uscita in sala in un breve periodo; dovrebbe, al contrario, estendere la sua azione nel lungo periodo. Avevo lo stesso gruppo tecnico del mio film precedente, 20, e dei documentari che ho realizzato in seguito; abbiamo fatto un lavoro molto accurato, pur restando nell’ambito del low budget. Abbiamo impegnato ogni risorsa che avevamo; Benedetta è stata in scena 41 giorni su 42, il peso del film era tutto su di lei. Trovare la protagonista giusta non è stato per niente facile, sia per esigenze di performance sia di tenuta psicologica; l’attenzione del film, infatti, non è sull’aspetto fisico ma sulla dimensione psichica della malattia, il punto di vista è quello di Sara. Io alla fine ero disperato, continuavamo a selezionare attrici che poi per un motivo o per un altro non andavano bene; quando ho visto Benedetta ho capito subito che poteva essere lei la protagonista ideale, perché ha scelto di affidarsi completamente a noi. Anche Gianmarco è stata un’ottima scelta, per un personaggio che è congelato nella sua sfera di cristallo.

Qual è il punto di vista del film? C’è quello della ragazza, ma anche del mondo che le sta intorno. Come avete operato il restringimento del campo sull’ottica di Sara?

Marco Pozzi: Abbiamo lavorato sul particolare per far venir fuori poi l’universale, lasciando fuori qualsiasi aspetto eziologico: io non sono un medico, anche se ci siamo documentati molto dal punto di vista clinico. La novità su questa malattia è la presenza, sul web, di siti che la incoraggiano pubblicando “decaloghi” come quello che si vede nel film. E’ una malattia sociale, una cartina di tornasole della crisi del nostro tempo; si tratta della prima causa di morte tra gli adolescenti nell’occidente, ma c’è ancora su questa malattia una cortina di silenzio. Si fa fatica a parlarne perché è un tabù: e poi, nel momento in cui viene messa a fuoco, l’approccio dei media è sempre quello voyeuristico. Anche io avrei potuto mettere in scena il film in quel modo, puntare tutto sull’aspetto fisico e magari alla fine far morire la protagonista; cosicché il personaggio “colpevole” sarebbe stato punito e alla fine il pubblico ne sarebbe uscito rassicurato. Ma non era questo l’approccio che volevo: il mio non è tanto un film sulla malattia, quanto sulla storia di un’adolescente che si ammala.

Benedetta Gargari: Come ha detto Marco, mi sono completamente affidata. La sceneggiatura mi aveva molto incuriosita ed è stata una sfida, visto che era la prima volta che interpretavo un ruolo da protagonista. Con questo personaggio sono anche cresciuta, visto che il peso del film era tutto su di me; nell’affrontarlo, mi sono dovuta fare forza da sola. Sono stata comunque seguita da uno psicologo e da un nutrizionista, visto il tipo di personaggio e il fatto che, per renderlo più credibile, ho deciso autonomamente di perdere qualche chilo; ma ho mantenuto un certo distacco, potevo rimanere influenzata dal personaggio e dalla malattia ma, grazie al loro sostegno, sono riuscita a far sì che ciò non accadesse.

Pozzi, il film è scritto da lei e da Paola Rota, ma di chi è stata l’idea? Chi aveva l’interesse principale per il tema?

Marco Pozzi: Io insegno all’università e faccio spesso dei workshop nelle scuole superiori; in uno di questi, realizzato a Cremona, il materiale filmato mostrava la formazione di quattro adolescenti. Da questi “appunti”, che avevano forma di documentario, ho deciso che avrei fatto un film con protagonista un’adolescente; in seguito ho incontrato Paola, che mi ha fatto vedere il suo progetto di un documentario sull’anoressia. Così abbiamo deciso di unire le due cose.

Cosa può dirci sul progetto di distribuzione parallela nelle scuole?

Marco Pozzi: Questo progetto si esplicherà in due modalità: un roadshow in una trentina di tappe, in cui sarà sempre presente un esperto di disturbi alimentari, e un progetto con Agis Scuola che avrà inizio nel prossimo anno scolastico. Abbiamo già fatto due prove in provincia, e l’esito è stato analogo: nel giro di 48 ore molti dei ragazzi hanno interagito col film, scrivendone per conto loro o girando dei filmati. In una scuola femminile invece abbiamo fatto vedere solo delle sequenze, organizzando cinque incontri con vari nutrizionisti: abbiamo avuto ben sei outing, ragazze che hanno avuto il coraggio di parlare del loro problema, e altri due nei giorni successivi.

Tognazzi, com’è stato coinvolto nel progetto? Un attore affermato che ha scelto di lavorare in un film indipendente…

Gianmarco Tognazzi: Questo fa parte della mia carriera: più i progetti sono indipendenti, più mi sento motivato a parteciparci. Inoltre sono molto amico di Marco, ho una stima illimitata per lui e da anni volevamo lavorare insieme. Il paese non ci ha mai favorito, visto che il cinema indipendente qui è visto come un problema. Ci si chiede perché temi sociali importanti vengano sempre trascurati dalla distribuzione ufficiale: in quest’anno e mezzo di travaglio l’interesse era soprattutto da parte del pubblico, abbiamo avuto molte telefonate di docenti che volevano che la pellicola fosse proiettata nelle scuole; le potenzialità di un film stanno anche nella sua possibilità di essere visto. E’ una malattia subdola questa, che viene negata innanzitutto dalle persone che ce l’hanno, per cui diventa difficile aiutarle; io interpreto un padre distratto, che incarna il paradosso di un oculista che non vede. E’ la dinamica della società che ci rende distratti nei confronti dei nostri affetti. Questa è una malattia moderna, che è soggetta all’influenza della moda nella nostra società, quella che impone certi modelli all’immaginario.

Cosa ne pensate dell’attuale situazione del cinema indipendente in Italia? Forse, da noi, essere indipendenti significa anche toccare dei temi che attualmente riesce a toccare solo la fiction?

Emanuele Nespeca: Io lavoro anche come produttore, e ho cinque film che probabilmente nei prossimi anni riuscirò a produrre; ma se penso che devo distribuirne anche solo due, inizio a sentirmi male. Le colpe dell’attuale situazione sono da suddividere tra tutta la filiera, dai produttori fino ad arrivare agli esercenti. Bisogna cercare di scardinare un sistema ormai fossilizzatosi, partendo dalle sale, che dovrebbero ricominciare a lavorare nell’arco della giornata e non solo nelle ore serali, passando per lo sfruttamento di internet, fino a riacquistare un contatto con la televisione.

Pozzi, ci sono registi a cui si ispira, in particolare?

Marco Pozzi: Devo molto a Ermanno Olmi, che mi ha anche insegnato all’Università, cosa che ho capito solo successivamente; in questo film, comunque, c’è un approccio stilistico che è in qualche modo chiamato dalla storia. Durante le riprese in casa, per esempio, non volevo movimenti di macchina: volevo dare l’impressione che noi guardassimo e loro fossero come degli animalini sotto vetro. Non volevo l’empatia; e poi c’è questo bianco negli interni della casa, che non è rassicurante ma neanche spaventoso.
Quei due genitori incomunicanti, man mano che trascorrono i minuti, viene voglia di prenderli a pugni. C’è nel film una presa di posizione accusatoria nei confronti dei genitori e della loro incapacità?

Marco Pozzi: Loro sono la media dei veri genitori che hanno a che fare con questo tipo di malattia. L’altro giorno, a San Biagio, ho incontrato una signora che mi ha detto proprio questo: “Noi eravamo incapaci di vedere”. Lo stesso oculista riesce a vedere il problema con chiarezza solo quando si trova davanti alla “sindone”, al lenzuolo sul quale sua figlia disegna la sua sagoma.

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