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Non solo Assange: quale eredità per il cablegate WikiLeaks? | Fuori le Mura

Non solo Assange: quale eredità per il cablegate WikiLeaks?

6 febbraio 2012

di Flavio Camilli

Un libro, scritto dai giornalisti del Guardian coprotagonisti dello scandalo del 2010, ripercorre vita morte e miracoli di Wikileaks. Ma il titolo inganna: Assange forse vorrebbe esserlo, ma in questa storia non ci sono protagonisti in carne e ossa

Se vi dicessi WikiLeaks? Voi mi rispondereste Julian Assange. Qualcuno potrebbe anche avercelo presente: uno spilungone, capelli color platino, occhi piccoli e indecifrabili. Dita veloci, abituate a dominare le tastiere più restie, a interrogare i database più riluttanti e, a quanto pare, anche a convincere le mutandine più indecise. Un uomo complesso, difficile da capire, condannare o stimare. Un’infanzia turbolenta, una concezione del mondo più assolutista di quello che sarebbe disposto ad ammettere; un eroe autoincensatosi martire, un condottiero della libertà d’espressione ma solo finché è lui a tenere alta la bandiera.

Sulla difficoltà di interagire con un soggetto del genere ma anche sugli incredibili pregi che un pensiero in bianco e nero come il suo può produrre è parzialmente tessuta la narrazione di WikiLeaks, la battaglia di Julian Assange contro il segreto di Stato (Nutrimenti), libro che ripercorre la genesi del cosiddetto cablegate attraverso il racconto dei giornalisti del Guardian con i quali Assange ha stipulato l’accordo per la diffusione dei documenti in suo possesso.

L’opera “si legge come un thriller” (è scritto dappertutto, perché non qui?) ma è davvero molto di più: David Leigh, ora vicedirettore del Guardian e Luke Harding, corrispondente da Mosca, fanno luce in maniera sistematica e ordinata su una vicenda che per molti è ancora a dir poco fumosa e pongono, forse senza volerlo, una questione di cui il caso WikiLeaks è “solo” simbolo: qual è, oggi, la missione del giornalismo? Aldilà di Assange, Manning, Rusbridger, si tratta di un’opera sull’importanza, sulla natura e sulla comunicazione delle notizie.

La vicenda è facilmente schematizzabile almeno nella stessa misura in cui nel testo è dilatata e farcita di aneddoti, dichiarazioni ed elementi romanzeschi: Bradley Manning, venti anni, analista informatico dell’esercito USA di stanza in Iraq, legge, vede e sente più di qualcosa che non gli torna. Pensa bene, data la ridicola debolezza del sistema di sicurezza, di copiare tutto su un cd piratato di Lady Gaga e di cercare un medium per trasmettere al mondo intero le importanti informazioni recepite. Unico errore: confessare tutto tramite chat, per stupidità, solitudine o desiderio di comprensione, a un certo Adrian Lamo, al quale dovrà la propria incarcerazione.
Manning è un patriota nel senso più candido del termine, un ragazzo che verrebbe da definire “giusto”, se solo la parola valesse il concetto: “Se non succede niente mi dimetto da componente della società. […] Io voglio che la gente veda la verità, che la vedano tutti, perché se non hai informazioni non puoi decidere, non puoi esercitare il tuo ruolo di opinione pubblica. Ma magari io sono solo giovane, ingenuo e scemo”. L’intento è semplice: smascherare le più recenti “missioni di pace” americane. A chi rivolgersi? La soluzione potrebbe essere e sarà l’ambizioso progetto di un hacker australiano, Julian Assange, “un’agenzia di intelligence democratica e open source”: WikiLeaks. La quantità dei file, però, è talmente ampia che lo stesso Assange deve presto riconsiderare la volontà di sparare tutto online senza alcun lavoro di cesellamento. Qui entrano in gioco i redattori del Guardian, che daranno ampio spazio ai rapporti segreti delle guerre in Iraq e Afghanistan, del New York Times e di Der Spiegel, in un primo momento, e de El País e Le Monde, a ridosso del giorno della pubblicazione del terzo pacchetto: i dispacci diplomatici. La rappresaglia degli interessati, ma anche del caso, è feroce: tentativi multipli e velati di ritenere Assange responsabile per efferatezze compiute dai governi e l’accusa formale di stupro da parte di due donne svedesi.

Bradley Manning

Come già sottolineato in apertura, la vera forza del libro, di cui Steven Spielberg ha già acquistato i diritti (forse perché “si legge come un thriller”?), è la potente riflessione sullo stato del giornalismo. I veri protagonisti sono i documenti, e non le mani, pur determinanti, attraverso le quali sono passati. È la loro liberazione e l’averli resi di pubblico dominio il cardine attorno a cui è avvenuto un cambiamento tanto epocale quanto silenzioso.
Il merito del fatto che Sam, ragazzo tunisino che scrive al Guardian sull’uscio della primavera araba “Sì, siamo dei codardi. […] Lasciamo il Paese a quelli che rimangono. […] La Tunisia? È […] un gigantesco Club Med. E poi d’un tratto WikiLeaks rivela ciò che tutti sussurrano da tempo. E poi un giovane uomo si sacrifica. E poi venti tunisini vengono uccisi dalla polizia in un giorno. Ed ecco che per la prima volta vediamo la possibilità di ribellarci […] con una nuova rivoluzione, la rivoluzione dei gelsomini, quella vera”, non può essere attribuito né all’eroico Manning (tutt’ora detenuto a Fort Leavenworth senza giusto processo e a cui va, tuttavia, la fetta più grande di coraggio e conseguenze) né ad Assange, né alle redazioni dei giornali. Il merito è dell’evoluzione dei mezzi, delle tecnologie e delle menti: “La quantità dei rapporti è spaventosa. Stampando su carta il contenuto della chiavetta di memoria ne uscirebbe una biblioteca di almeno duemila libri piuttosto voluminosi. Nessun corpo diplomatico avrebbe mai scritto tanta roba prima dell’era digitale. […] Misurarsi con tutta quella roba è un problema giornalistico piuttosto serio”.

David Leigh

A più di un anno dalla pubblicazione dei dispacci, la riflessione non può che essere orientata sul percorso che queste carte hanno compiuto, sul fatto che cinque redazioni con fusi orari diversi, linee editoriali differenti e periodicità disparate hanno collaborato affinché l’evento facesse il botto ma anche perché tutte le pubblicazioni rientrassero nella legalità, fuggissero lo spettro della diffamazione e non costassero la vita a nessun informatore. Inutile dire che Assange si prende il merito anche dell’enorme macchina organizzativa da lui solo avviata: “Il dato nuovo è che noi, WikiLeaks, facciamo in modo che organizzazioni rivali, che in altre circostanze agirebbero in concorrenza, invece collaborino. In questo modo tutti cercano di fare del loro meglio, non per la propria azienza, ma per uno scopo comune”.

Quel che emerge da una lettura più approfondita è il dilemma giornalistico, l’evidenza che, proprio in un momento storico in cui si sta cercando di capire (o decidere) se il citizen journalism sia il diavolo o l’acqua santa, il vecchio giornalismo, quello fatto di professionsiti abilitati prima di tutto dall’esperienza, si rende indispensabile. E lo fa assolvendo alla sua funzione originale e originaria, senza la corsa alle vendite o allo strillo in prima pagina: valutando l’utilità sociale del fatto, spogliandolo degli elementi che lo renderebbero impubblicabile e pericoloso per le fonti senza snaturarlo, selezionando e ordinando le notizie a secondo della pubblica rilevanza e abbandonando tutto il resto.
La godibilità del racconto dei giornalisti inglesi è nella descrizione generosa (e vogliamo credere attendibile) della vita di redazione, nell’enigmatico ritratto del personaggio del decennio, nell’avvincente battaglia per la verità iniziata da un ragazzetto con una morale importante (se si vuole essere un po’ romantici) e nell’aneddotica: uomini chiusi in bunker circondati da tazze di caffè, l’incapacità di usare telefoni usa e getta, riunioni di redazione sonnolente o schizofreniche, l’arrivo anticipato delle copie di Der Spiegel e la rottura dell’embargo da parte di un anonimo Freelance_09 su twitter, le avances di Assange e i preservativi rotti o non utilizzati, le sfuriate per accordi non mantenuti e le chattate tra un militare confuso e un hacker doppiogiochista. Il valore della narrazione, invece, è da cercare in un tema implicito, nella rivoluzione dei criteri e delle modalità del fare buona informazione.

Nessuno degli attori coinvolti in questo gioco serissimo avrebbe raggiunto il risultato, con la stessa incisività, da solo. Manning, chissà, avrebbe potuto desistere e cancellare dati per ascoltare in pace Born this way (surreale, già, ma ipotizziamo); Assange avrebbe pubblicato miliardi di “cose” senza alcuna forma o criterio per essere ignorato dalla maggiorparte del mondo, ancora una volta colpevole di non essere abbastanza intelligente o interessato; i professionisti del Guardian, sempre sulla superficie del pezzo, avrebbero continuato a sperare di intravedere i fondali, senza che nessuno, scrivendo una password su un tovagliolo, potesse scoperchiare in un attimo il vaso di Pandora.

La copertina del libro

Il fatto, la notizia, lo scoop è un mondo che sta cambiando a partire dalle gerarchie della comunicazione. È sempre più errato considerare i cittadini pesci in attesa di essere pescati, ignoranti che elemosinano la sapienza. Il livello di informazione raggiungibile da un ventenne armato di un computer, della rete e di un paio di account sui principali social network si è vertiginosamente alzato. Con esso, la possibilità che quello stesso ventenne possa dare un-qualche-tipo-di-parzialissima notizia. Un’incompletezza congenita ma ottimamente bilanciata dagli status, dalla condivisione, dai blog, dai tweet di altri milioni di ragazzi.
La domanda del secolo non è tanto che fine farà Assange, ma che fine farà il giornalismo? Probabilmente è stupido chiederselo, perché il giornalismo è già finito. La patata bollente, ora, è tutta nelle sapienti mani dei giornalisti (che godono ancora di ottima salute). Cosa fare? Lucidare un mestiere che a diversi livelli è diventato facilmente praticabile o riscoprirsi filtri imprescindibili per presentare le informazioni nella maniera più accessibile, senza vergognarsi di tendere la mano all’adolescente smanettone, se è lui a sapere come arrivare per primo alla comunicazione più efficace? Il cablegate, sotto questo punto di vista, è stato un messaggio dal futuro. Fuggire l’ovvietà e la pornografia dell’inutilità, cambiare i paradigmi di una professione grazie al coraggio di reinventarsi, la metà della metà di quello avuto da un piccolo militare emarginato che sta scontando una pena indefinita e commisurata non alla gravità del fatto commesso quanto al servizio reso alla comunità mondiale. Sembra valerne la pena, non credete? Anche solo per non dare ragione ad Assange, per cui, paradosso ma neanche tanto, i giornalisti sarebbero (quasi) tutti inutili.

WikiLeaks
La battaglia di Julian Assange contro il segreto di Stato
Autori: David Leigh, Luke Harding
Casa Editrice: Nutrimenti
Pagine: 392
Prezzo: 19,50 €

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