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Janis Joplin: bandiera di una vita oltre il limite | Fuori le Mura

Janis Joplin: bandiera di una vita oltre il limite

30 gennaio 2012

di Sara Rotondi

Assoluta padrona del palcoscenico e interprete assoluta dello struggimento blues, diede corpo alle emozioni più segrete grazie alla timbrica della sua voce che generava in un cocktail esplosivo e culminava in un parossismo acustico

Scopri su FLM tutte Le donne del Rock, talenti (al femminile) che hanno fatto e fanno Storia

Mai come negli ultimi anni il panorama pop-rock internazionale si è popolato di interessanti voci femminili.
In un music business ancora troppo affollato dai maschi, si stanno facendo spazio travolgenti sonorità in rosa. Chiunque si sia illuso che solo con il nuovo millennio le donne si siano interessate al mondo rock, dovrà ricredersi.
Da oggi Fuori le Mura vi condurrà in uno splendido viaggio al femminile proponendo, ogni settimana, il ritratto di una donna che ha lasciato il segno nella storia della musica, italiana e mondiale, degli ultimi quarant’anni.

“Hon, I want the sunshine. Yeah, take the stars out of the night – Dolcezza, voglio lo splendore del sole. Si dai, priva la notte delle stelle!”.

Se non fosse stato per il rock, ha confessato Bruce Springsteen, non avrei saputo che c’era vita su questo pianeta. Riconosciuta e ricordata per l’intensità delle sue interpretazioni, Janis Joplin la “regina del rock” non ha bisogno di presentazioni: la sua vita fu quanto più di simile a una delle sue canzoni.

Nacque a Port Arthur in Texas nel 1943 e fin da adolescente sviluppò un certo odio verso il suo aspetto fisico poiché poco avvenente e con il viso devastato dall’acne. Erano gli anni della Beat Generation e Janis si ammaliò di grandi artiste blues come Bessie Smith, Odetta e Big Mama Thornton. Dopo il diploma si trasferì in California, e nella San Francisco hippie e lisergica degli anni Sessanta si diede alle droga e all’alcool, suonando e tentando invano di vivere con le note. Quando cantava aveva la sensazione di fuggire dal mondo dei bianchi che la imprigionava e il suo sogno era diventare una cantante. In camera sua il giradischi era costantemente in funzione. Tutto sembrava finito con il suo ritorno a casa nel 1965, quando i Big Brother and the Holding Company la ingaggiarono alla voce. Con la band si esibì in vari locali della California e nel 1967 arrivò il successo durante il festival pop di Monterrey, dove eseguì magistralmente Ball and Chain di Big Mama Thornton affermandosi come una vera rivelazione della musica rock.

L’anno seguente uscì Cheap Thrills, originalmente intitolato Sex, Dope and Cheap Thrills, album capostipite della ribollente scena di San Francisco, contenente le cover Summertime di George Gershwin e l’eterna Piece of My Heart, dove la forza nel ritornello non ha limiti: “Take another little piece of my heart now – Prendi un altro piccolo pezzo del mio cuore, ora”. Celeberrima anche la copertina underground del fumettista Robert Crumb. Dopo i trionfi di Monterrey e l’uscita del disco che vendette un milione di copie (disco di platino) e scalò le classifiche di Billboard, la Joplin sempre più abbagliata dal successo, abbandonò la band per intraprendere la carriera solista. Scelse come gruppo d’accompagnamento la Kozmic Blues Band e nel 1969 pubblicò l’incompreso I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama! in cui passò dal folk-blues ad una musica di stampo blues più profondamente “nero”, sconfinando nel soul e nel rhythm’n’blues. Tra i brani dell’album figurano Kozmic Blues, Little Girl Blue, Maybe Work Me, Lord.

Nel frattempo l’artista diventò il simbolo della donna indipendente e infranse la cultura ‘prevalentemente maschile’ che troneggiava nel mondo del rock. Affermò fieramente:”All’età di 21 anni Zelda Fitzgerald (scrittrice n.d.r.) formulò la filosofia dell’auto-determinazione. Non sopportando l’idea di un mondo popolato da donne infelici perché prigioniere della vita domestica, e nel migliore dei casi rassegnate a viverla, elaborò questo pensiero secondo cui per una donna rapportarsi con il mondo equivaleva a lanciare un prodotto – se stessa – sul mercato”.

Sotto la luce dei riflettori, aveva la sensazione di evadere dal mondo con una verve che infiammava il palco per poi spegnersi: quando calava il sipario, si sentiva terribilmente giù e cercava conforto nell’alcool che teneva costantemente con sé. Celebre è la frase: “Quando sono sul palco faccio l’amore con 25000 persone, poi però torno a casa sola”.

Sempre più all’apice del successo la diva continuò a portare al limite l’emotività della folla, attraverso il suo carisma folleggiante e inquieto contraddistinto da una crescente voglia di evadere, prima come unica necessità di vita poi come espressione massima della sua personalità, che viaggiava in parallelo con la ribellione culturale di quegli anni (dai significati generazionali o “rivoluzionari”, ma di cui, forse, nessuno ha raccontato le ‘storie umane’ n.d.r), che culminò con l’evento rock più celebre e osannato della storia: Woodstock. Correva l’anno 1969 e al festival di Woodstock si esibì in compagnia del suo nuovo gruppo, i Kozmic Blues. Ma per lei il leggendario avvenimento si trasformò in un totale fallimento: la rocker deluse i fan con una prestazione dozzinale e frammentata a causa del consumo caotico e insaziabile di droghe.

La fine della sua carriera era già programmata: l’alcool e l’eroina distrussero in brevissimo tempo il fisico e la mente della singer, troppo labile e ‘fuori’ per la società di allora. Durante la session di Pearl Janis Joplin fu trovata senza vita al Landmark Motor Hotel di Hollywood il 4 ottobre 1970 stroncata da una probabile overdose di eroina, pochi giorni dopo Jimi Hendrix e poco prima di Jim Morrison (accomunati anche loro dalla follia autodistruttiva che regolava le loro vite). Dopo la sua scomparsa cremarono il corpo, sparsero le sue ceneri nell’Oceano Pacifico lungo la costa di Marin County  in California e vendettero all’asta il suo boa di piume. La morte la consacrò come un mito senza tempo e gli riservò un posto nell’olimpo delle rock star grazie al suo immenso patrimonio vocale. Pearl (pubblicato postumo nel 1971) trionfale seguito del già epico Cheap Thrills, fu considerato dalla critica il testamento e il vero capolavoro dell’artista. Nella sound-track si affilano le splendide Cry Baby, la nostalgica A Woman Left Lonely, il country-rock trascinante di Me And Bobby McGee e Get It While You Can.

Nel 1995 fu inserita nella Rock and Roll Hall of fame e nel 2005 insignita nel Grammy Award alla carriera. Riccardo Bertoncelli, critico musicale scriverà di lei: «Era una musa inquietante e una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà». In una delle sue canzoni più famose Chelsea Hotel #2, Leonard Cohen la ricordò proprio così, con un omaggio raccolto: “E stringendo il tuo pugno per quelli come noi / che sono oppressi dalle figure della bellezza / ti sei data una sistemata, e hai detto: Vabe’, non importa/ Siamo brutti, ma abbiamo la musica”. Fatalità, il destino ha voluto che anche il suo ultimo brano si rivelasse un presagio: Buried alive in the blues – sepolta viva nel blues. Meglio dissolversi che consumarsi in solitudine.

 

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