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Nessuna pietà per Pasolini | Fuori le Mura

Nessuna pietà per Pasolini

23 gennaio 2012

di Simone Arseni

L’inchiesta prova a far luce su alcuni aspetti oscuri dell’omicidio dello scrittore

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Ancora molti misteri circondano la morte di Pier Paolo Pasolini. Le circostanze del suo assassinio sono confuse. L’indagine sui responsabili dell’omicidio appare depistata a regola d’arte da persone che tutt’oggi hanno il  potere di conservare un velo di inconoscibilità sul movente e sul mandante (o sui moventi e sui mandanti) degli assassini di Pasolini. Tali e tanti sono le zone d’ombra sulla vicenda, che la Procura della Repubblica di Roma ha riaperto recentemente le indagini sul caso (nel maggio del 2010). Di queste zone d’ombra si occupa il libro intitolato Nessuna pietà per Pasolini, scritto da Stefano Maccioni, D. Valter Rizzo e Simona Ruffini, edito da Editori Internazionali Riuniti.

Dal mistero del Biondo Tevere (ristorante nel quale Pasolini è entrato qualche ora prima di essere ucciso) ai misteri del linguaggio corporeo di Pino Pelosi; dalle stranezze di una “confessione troppo veloce” (quella rilasciata da Pelosi nel novembre del 1975, subito dopo l’omicidio), all’ipotesi di una pista che ricolleghi l’omicidio di Pasolini alle morti di Enrico Mattei e Mauro De Mauro; dalle notizie fornite da Silvio Parrello riguardo alla macchina che avrebbe investito Pasolini sfigurandone il cadavere, alle ricerche svolte su alcune delle persone che sembrano coinvolte nell’omicidio (i fratelli Borsellino e Johnny lo zingaro) fino alla pista siciliana, che crea un legame tra la morte di Pasolini e i soggiorni catanesi dello scrittore, durante i quali il poeta prendeva contatti  con alcuni ragazzi dei quartieri popolari legati allo squadrismo nero.

Un professore universitario amico di Pasolini che preferisce restare anonimo, ha dichiarato in una intervista contenuta nel volume che quei ragazzi “erano dei marchettari […] tutti di destra, tutti organicamente legati alle squadre del servizio d’ordine del Msi […]. Pasolini era interessatissimo a loro sul piano sociologico. Erano i giovani fascisti della Catania nera, la città che aveva dato la più alta percentuale di consensi ad Almirante” e ancora “è possibile che la sua curiosità lo abbia esposto a pericoli. Lui chiedeva, faceva domande, le faceva su tutto”.

Un libro dai contenuti interessanti, anche se non sempre densi e uniformi: alle valutazioni su dati fattuali e alla descrizione delle prove riscontrate da perizie scientifiche attendibili, seguono velleitarie interpretazioni su gesti, parole, comportamenti dei presunti colpevoli. È il caso del capitolo sul linguaggio corporeo di Pino Pelosi, che non sembrano fare altra chiarezza sulle vicende interessate dalle indagini, oltre a quella di insinuare che forse, come sostiene con veemenza Valter Rizzo, il reo confesso diluisce la verità dei fatti con menzogne e ricostruzioni imprecise.

La forma non è omogenea, essendo un libro scritto da più autori. È tuttavia riscontrabile, in particolare nella parte iniziale e in quella conclusiva, uno stile prolisso e romanzesco, che appesantisce i contenuti e si concentra su descrizioni del tutto ininfluenti e per di più di scarsa qualità narrativa. L’esito è una lettura intorpidita e pesante che conduce il lettore a non essere pienamente concentrato laddove sono i contenuti invece si fanno più densi.

In alcuni brani, brevi ma frequenti, l’autore riduce senza volerlo la riapertura di un caso giudiziario tanto controverso a un romanzetto di dubbia qualità: è il caso del passo in cui si descrive il lavoro dell’avvocato Maccioni e della criminologa Ruffini (è quindi ipotizzabile che questo stile appartenga al giornalista Valter Rizzo) in prima persona plurale, con discorsi diretti come in un romanzo. Cito dal testo: “[…] però c’è un’altra verità, ed è quella processuale. Su questa noi possiamo agire ed è per tale motivo chedobbiamo leggere gli atti del processo. Capire se è stata rispettata la procedura o ci sono anomalie […]. Simona guardò fuori dalla finestra, rimanendo in silenzio per qualche istante. A volte non avere esperienza può essere un vantaggio. Ti da il coraggio dell’incoscienza […]. «ecco, disse, c’è un’altra verità. È vero che quella dei fatti non la sapremo mai, ed  è vero che quella processuale ci aprirà la strada nel modo che tu conosci. C’è una terza via però, ed è quella investigativa […]. Capisci che non è mai stata fatta una perizia sull’attendibilità di Pelosi? La sua confessione faceva acqua da tutte le parti, fu troppo veloce. L’omicidio come lo ha raccontato lui non ha senso. Dobbiamo darglielo noi». In quel momento tutti gli studi effettuati dalla criminologa assunsero un significato. Questo poteva fare, questo doveva fare, questo voleva fare. E questo avrebbe fatto”.

La scena descritta è da fiction televisiva, anche un pò ermetica, incomprensibile. Descrive un’eroina, la sua determinazione, il suo coraggio, la decisione nell’affrontare la sua missione, come se la Storia in persona l’avesse chiamata a quel compito e lei “non potesse, non dovesse, non volesse sottrarsi”.

Non credo che queste descrizioni corrispondano alla verità dei fatti, alla modalità con cui l’avvocato e la criminologa hanno portato avanti il loro lavoro; non credo che quei pensieri abbiano mai attraversato la loro mente, o almeno me lo auguro. Sarebbe dunque stato più opportuno omettere del tutto brani come questo. Ne avrebbe giovato la struttura e la credibilità del volume, che pure resta salda. Sembra proprio che la ricerca della verità cui è rivolto il volume sia, senza alcuna necessità, assurdamente ingigantita e romanzata. Ciò non rende giustizia al lavoro svolto dall’avvocato e dalla criminologa e, senza volere, lo ridicolizzano. Descrizioni in cui la verità dei fatti si mescola alla finzione narrativa. Nell’accusa rivolta da Rizzo a Pino Pelosi, di elaborare una verità mistificata, sembra essere caduto lui stesso.

Insomma, se il libro avrà successo, sarà merito del tema che continua a coinvolgere emotivamente molti italiani e per alcuni contenuti e alcune ipotesi frutto di analisi pacate e di testimonianze poco conosciute fino ad ora, non certo dello stile giornalistico e delle velleità  letterarie cui sarebbe meglio che qualcuno degli autori rinunciasse definitivamente. Scrivere un’inchiesta giornalistica è tutt’altra cosa dallo scrivere un romanzo.

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