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Tuesday 16 April 2024
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Scegliere tra il cornetto e il giornale: media, politica e cittadino-repellenza | Fuori le Mura

Non si può dire sia un periodo tranquillo per il servizio televisivo pubblico italiano. Redarguito dall’Agcom che ha invitato il Tg1 (con Tg4 e Studio Aperto, un accostamento che fa giornalisticamente rabbrividire e che probabilmente la dice lunga) a equilibrare l’informazione politica, accusata di essere troppo governance-oriented; inchiodato dal Cdr (rappresentanza sindacale interna) del primo telegiornale attraverso un “libro bianco” che documenta la presunta “disinformazione” perpetuata dal direttore Augusto Minzolini; sommerso dalle polemiche riguardo le nuove nomine che hanno spaccato il cda e riscaldato il dibattito attorno all’imparzialità ma soprattutto all’autonomia dell’informazione. Insomma, sembra davvero che in questo periodo il minzolinismo non abbia vita facile.

In realtà, però, è Mauro Masi, direttore generale Rai dal 2 aprile 2009, a instillare nello spettatore interessato il più grave allarme su come la situazione stia degenerando.

Mauro Masi

Se sorvoliamo sulla telefonata di dissociazione ad Annozero avvenuta tempo fa (resa ancor più ridicola dalla speculare chiamata di “non dissociazione” arrivata nei giorni seguenti a L’isola dei famosi di Simona Ventura) spaventa come anche il dio Share non riesca a convincere la dirigenza ad abbandonare alcune dinamiche pro-maggioranza: a rischio, infatti, i contratti di numerosi conduttori di Rai 3, rete storicamente pendente a sinistra. Si tratta, casualmente, dei programmai più sgraditi dal centro-destra: Report, Ballarò, Parla con me e Che Tempo Che Fa.
Gabanelli, Dandini, Floris e Fazio vedranno scadere i termini dei loro accordi lavorativi tra giungo e agosto senza che si sia ancora parlato di rinnovo, tanto che sembrerebbero già avviati contatti con la 7 e Sky.

La contraddizione maggiore, però, è che tutti questi programmi portano a mamma Rai un guadagno ingente che va, rapportato con le spese per la realizzazione, tra il +30 % e il + 50%, mentre invece, non solo confermati ma anche difesi e caldeggiati, sono il Tg1 che perde spettatori ad ogni edizione ma soprattutto il lungo e austero editorial-comizio di Giuliano Ferrara, Qui Radio Londra che in un mese dall’esordio lascia per strada ben più di un milione e mezzo di fedeli (già non molti il 14 marzo 2011) e che, per contratto bisognerà sorbirsi fino al 2014, Apocalisse permettendo.
Oltre a danneggiare le tasche del servizio pubblico che già ha chiuso l’ultimo anno fiscale con un rosso di 120 milioni di euro, la politica “distruttiva” di Masi non fa che favorire la concorrenza.
Che sia questa la strategia adottata?
Non vogliamo pensarlo. Certo è che una gestione del genere è quantomeno sospetta.

Augusto Minzolini

Il riflettore più luminoso, sempre e comunque, si accende sul tema più che sui singoli casi. Dove deve guardare o leggere il cittadino che vuole un’informazione imparziale che si attenga più ai fatti che al commento, spesso fazioso da entrambe le parti, sugli stessi?
Nessuno sogna l’utopia di un giornalismo asettico che rifugga la critica o l’interpretazione: è chiaro che il giornalista ha l’obbligo della fedeltà a fatti e verità ma anche il diritto/dovere di fornire chiavi interpretative che al cittadino non specializzato in materia potrebbero sfuggire. Il professionista dovrebbe dilatare il fatto e declinarlo alle diverse accezioni per poi demandare al lettore il giudizio.
Sembra, tuttavia, che il tempo non faccia che polarizzare gli interventi. Questa estremizzazione ha indubbiamente a che fare con la trasformazione, evidente, del fare politica nella nostra penisola. Sarebbe troppo semplice dare la colpa al berlusconismo. La degenerazione va “appioppata” in egual misura ai sostenitori e ai detrattori di quello che volenti o nolenti è, da più di 15 anni, il protagonista indiscusso della politica interna del Paese.

Giuliano Ferrara

L’errore è a monte: è la contaminazione. Non quella tra potere giudiziario e affari politici, che è oramai il leit-motiv delle dichiarazioni del nostro capo di Governo, ma tra politica e media.
È assodato che la politica si fonda sulla comunicazione. Non è un caso, quindi, che l’ascesa di Silvio Berlusconi abbia coinciso con le sue geniali intuizioni in campo di comunicazione, quando capì come sfruttare a proprio vantaggio il tubo catodico e la pubblicità, abbandonando le aspirazioni di imprenditore edilizio per presentarsi alle elezioni del 1994.
È retorica spudorata e inutile, certo, ma anche corretto, affermare che fu quello il momento in cui il conflitto di interessi sarebbe dovuto essere oggetto di legiferazione dura e puntuale. Da allora la strumentalizzazione dei media, che sono il primo canale dell’informazione – a partire dalla stampa per arrivare alla televisione – è diventata politica. La campagna elettorale della discesa in campo di Silvio Berlusconi fu quella dei videomessaggi, dei tg apertamente schierati, del duello televisivo con Occhetto moderato da Mentana, della nascita della Par condicio.
Siamo ancora tristemente vittime di un modo di fare politica che se all’esordio poteva apparire innovativo, sulla lunga distanza è divenuto manifestamente controproducente, ingarbugliato, confusionario e quindi cittadino-repellente.

Libertà di pensiero

Le manovre della dirigenza Rai, come i titoli sulle principali testate nazionali – pensiamo alle ultime prime pagine de Il Giornale o di Libero – sottolineano che l’informazione è ben più incatenata di un prigioniero: il rapporto viziato instauratosi tra chi la produce e chi la sovvenziona porta ad un assoggettamento dei primi verso i secondi che è accettabile solo finché non condiziona i contenuti.
La differenza è nelle ragioni della faziosità: chi è espressamente di parte per una questione ideologica è probabilmente da ritenersi più onesto di chi lo è per ragioni pecuniarie o per ambizione personale. È questa, forse, la differenza tra la lama con cui sono scritti gli articoli de Il Fatto Quotidiano e la “minzolingua” che incornicia l’intervista a Ferrara recentemente apparso al tg1.

Aldilà dell’ovvia ingenuità di una posizione del genere, non è contestabile il fatto che si è davvero ed evidentemente arrivati allo stremo delle forze. I risultati di questa guerra mediatica più che politica, ospite ogni giorno nei salotti televisivi, sono il progressivo disinteresse dei cittadini verso le questioni interne, erroneamente catalogate con la generica etichetta “roba di Berlusconi” o il rivolgersi, di coloro i quali all’informazione non vogliono rinunciare, verso il giornalismo partecipativo, fatto dai pari di cui ci si può fidare.
Sarà questa, probabilmente, la nuova polarizzazione: da una parte l’ignoranza, dall’altra il giornalismo popolare. E come dare torto anche alla più ignava delle due soluzioni?
Probabilmente l’unica mossa sensata è continuare a barcamenarsi tristemente selezionando ogni mattina la propria, personalissima rassegna stampa, finché, messi alle strette dal portafoglio che frigna, non saremo costretti a scegliere tra il cornetto e il giornale.
Allora la fame avrà la meglio, e anche gli affamatori dell’informazione libera.