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Eating city: alla ricerca di un modello sostenibile per “sfamare” la città : Fuori le Mura


Eating city: alla ricerca di un modello sostenibile per “sfamare” la città





28 marzo 2011 |



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Leggi lo speciale su Ecopolis 2011:

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Eating city: alla ricerca di un modello sostenibile per “sfamare” la città di F. Sportelli
La città che vive: energia e mobilità per un futuro possibile di M. Lupo
La progettazione e la certificazione energetica ed ambientale di M. Lupo

 

    Ecopolis 2011 si è aperta con una conferenza sulla sostenibilità dei flussi di approvigionamento alimentare: “Eating city”, iniziativa di Risteco, consorzio il cui obiettivo è quello di promuovere lo sviluppo sostenibile nella ristorazione collettiva.

    Il problema è che ormai, nel mondo, sempre più persone vivono in città (nel 2030 la popolazione urbana sarà più del 70%) ed è evidente che la città consuma cibo, ma non lo produce. Inoltre, l’industria alimentare subisce gli effetti della globalizzazione. La ricerca spasmodica di riduzione dei costi di manodopera ed energia la porta, così, a delocalizzare la produzione o ad affidarla a manodopera despecializzata che arriva in Italia per lavorazioni stagionali.

    Tra gli effetti negativi che ne conseguono ci sono la disoccupazione crescente, le emissioni climalteranti dovute al maggior numero di chilometri percorsi dai nostri cibi, la svalorizzazione delle produzioni locali. Diventa allora di estrema importanza capire e migliorare tutti i passaggi necessari a “sfamare” una città e sensibilizzare le aree urbane a scelte sostenibili. “La città che mangia” è stata pensata proprio per aiutare a costruire un nuovo paradigma economico con al centro l’uomo.

    In particolare, l’attenzione è stata rivolta alle filiere agroalimentari e al tema del lavoro e dei flussi migratori nel Mediterraneo, in questo momento più che mai d’attualità. Infatti, è stata presentata la ricerca “Il valore dell’immigrazione per l’agricoltura italiana” condotta dall’istituto SWG attraverso un’indagine qualitativa.

    In Italia solo il 4% degli occupati è rappresentato da imprenditori agricoli e il numero di lavoratori nel settore primario, provenienti da altri paesi, è aumentato di ben 7 volte negli ultimi 15 anni. Attualmente sono 52.000 (più di 170.000 se si considerano gli stagionali), circa il 6% del totale, con un aumento di coloro che rivestono un ruolo imprenditoriale. Sono sempre di più quelli che provengono da stati neo-comunitari, come Romania e Polonia, da Albania e stati dell’ex Jugoslavia, così come da India e Bangladesh.

    Curioso che, in base all’idea che la predisposizione a lavorare in agricoltura abbia origine dalla tradizione agricola del paese di provenienza, gli stereotipi etnici abbiano preso il sopravvento e si siano definite delle “specializzazioni etniche”. Quindi, per esempio, i macedoni e i romeni vengono considerati dei buoni pastori, i polacchi adatti al settore ortofrutticolo e gli africani alla raccolta di pomodori, uva ed olive.

    Inoltre, mentre gli operai italiani sono più specializzati e ricoprono posizioni di coordinamento, gli immigrati rappresentano l’ulitmo scalino della filiera. Si occupano, quindi, delle attività più semplici e faticose, lavorano soprattutto stagionalmente e spesso in nero. D’altra parte, per molti degli immigrati intervistati, questo tipo di occupazione rappresenta solamente la porta d’ingresso nel mondo del lavoro.

    Una cosa è certa: l’invecchiamento della popolazione, lo spopolamento delle aree rurali e la tendenza degli italiani di allontanarsi da questo settore lavorativo fa sì che la manodopera straniera, particolarmente in certe zone, garantisca la sopravvivenza delle imprese.

    Nel corso della conferenza si è poi discusso delle possibili strade da percorrere per arrivare ad un modello sostenibile di sviluppo e di società. Tutti gli interventi hanno ruotato attorno all’esigenza di un dialogo tra i vari ambiti che porti a soluzioni comuni e condivise. A riguardo, la prof.ssa Hassan Wassef (Centro di Ricerca Nazionale di Giza) ha evidenziato l’importanza di un approccio integrato spiegando, per esempio, quanto sarebbe importante coinvolgere nutrizionisti ed esperti di salute alimentare nella pianificazione urbanistica di una città, in modo da dislocare al meglio i suoi canali di approvigionamento. Anche la prof.ssa Trichopoulou (Università di Atene) ha spiegato quanto sia importante un modello interazionale portando, come esempio per eccellenza, la dieta mediterranea che trae la sua forza e i suoi effetti benefici non tanto, o non solo, dalla qualità degli alimenti presi singolarmente ma dalla loro associazione.

    In chiusura Pierre Calame (Presidente Fondazione Charles Leopold Mayer) ha definito pericoloso lo slogan “pensate globalmente e agite localmente” ritenendo indispensabile partire sempre dalle esigenze locali. Ha quindi definito indispensabile creare dei principi comuni e un sistema di interdipendenza tra gli stati, compiere un passo deciso verso la società sostenibile e rivoluzionare la governance.

    Certamente la conferenza è servita anche a portare all’attenzione un tema che la classe politica italiana sembra ignorare del tutto. Per questo, in una recente intervista, Maurizio Mariani, Presidente del Consorzio Risteco, ha lamentato l’assenza di una “visione sistemica” dei processi che governano i flussi di approvvigionamento agroalimentare. D’altronde, la questione l’ha spiegata lui stesso citando Einstein: “non si può risolvere un problema con lo stesso pensiero che lo ha creato”.



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    Category: Food + Wine