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Wednesday 24 April 2024
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L’istruzione italiana alla Settimana della storia | Fuori le Mura


ScuolaNell’ultimo incontro mattutino della Settimana della storia, si parla di istruzione e lo si fa attraverso un filmato iniziale ricco di testimonianze dirette e, successivamente, grazie all’intervento di tre docenti universitari quali Cosimo Ceccutti, Mirella Serri e Bruno Tobia.

Il filmato

Nel 1861, l’Italia era un paese centrato su un’economia in larga parte agricola. Ciò aveva conseguenze nefaste sui tassi di istruzione del paese, che contavano una percentuale pari di analfabeti pari al 78% dei cittadini. Nell’arco di quasi un secolo (gia nel 1951), la percentuale si abbassò fino a toccare un tasso 13 %, assai più rassicurante, sebbene ancora elevat rispetto a quello di altri paesi euopei (4% in Francia, 1% in Inghilterra). Un simile successo fu reso possibile dal crescente processo di indistrializzazione accompagnato, sul piano politico, da leggi via via estensive dell’obbligo scolastico e riorganizaztive della struttura educativa. Nell’Italia post unitaria gli insegnanti erano di estrazione povera, spesso calzolai, ciabattini, falegnami che, come doppio lavoro svolgevano il ruolo di insegnanti. Ma la loro preparazione culturale era scarsa e i loro compiti si limitavano all’alfabetizzazione pura e semplice.

Con l’insediamento del regime fascista, si ottenne la prima riorganizzazione del sistema scolastico. Con la riforma Gentile del 1923, si istituì il cosiddetto sistema scolatico “a canne d’organo”, che prevedeva scuole di grandezza diversa, che offrivano sbocchi lavorativi o di studio differenziati e che non erano in comunicazione tra loro. In quel periodo il liceo classico era preferito agli altri istituti e vi si insegnavano pin prevalenza materie umanistiche. Al liceo classico si affiancavano le Scuole del lavoro e le Scuole degli artigiani, a più spiccato indirizzo professionalizzante. Per ragioni di controllo politico la scuola che uscì da questa riforma era poco meritocratica, senza senso critico (alunni indottrinati dall’unico libro di testo) e a struttura fortemente clientelare (caratteristiche che la scuola odierna ha ereditato del tutto).

Dopo la seconda guerra mondiale, il sistema scolastico italiano aveva bisogno di essere ampiamente svecchiato e rinnovato: mancavano strutture e personale non implicato con il regime fascista, mancavano le risorse per rilanciare l’istruzione e ringiovanirla rispetto alla vecchia propaganda imperialista, razzista e antisemita che bisognava cancellare.

È questo il periodo di una serrata lotta ideologica tra l’idea di scuola del Governo, quella della Chiesa, timorosa di derive eccessivamente riformiste, e le prospettive ben più radicali dei partiti dell’opposizione. Questa lotta che sfocierà prima nel progetto di riforma della scuola del ministro Gonella (mai convertita in legge) e poi nella riforma della scuola media convertita in legge nel 1962. Tuttavia, per una vera transizione verso una cultura unitaria e diffusa fu decisiva l’innovazione tecnologica: l’utomobile e la televisione si rivelarono più efficaci di ogni riforma istituzionale. L’autostrada del sole abbattè le distanze fisiche e la televisione quelle culturali, diffondendo la conoscenza di una “lingua media” che si sovrapponeva ai dialetti (che pure restano la lingua dell’espressività informale).

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Gli interventi

Coerente con il tema della cultura unitaria e omogenea, l’intervento di Cosimo Ceccuti analizza il cambiamento del concetto di editoria intorno al 1820/1830, in particolar modo in Toscana e Piemonte. La coscienza e l’identità nazionale si diffuse in quel periodo anche attraverso l’opera di editori e autori che scrivono delle generose ribellioni del passato contro il dominio straniero, in un’italia che, secondo l’idea di un poeta francese del tempo, era “terra di morti”, rassegnata al dominio altrui. Nacque in quel periodo la categoria del romanzo storico, un modo per superare la severa censura attraverso l’esaltazione di personaggi del passato, ma che pure stimolavano il coraggio e l’unione dei lettori del tempo. Le storie di Ettore Fieramosca o di Francesco Ferrucci, le opere di Guerrazzi e di Giusti avevano la funzione di combattere una battaglia in campo culturale, non potendo battersi in armi contro il nemico.

L’idea di risorgimento come fatto di cultura è ripresa da Mirella Serri, che concentra il suo intervento sul ruolo culturale attivo delle donne (in particolare della Contessa Maffei) nel Risorgimento italiano. Nonostante le donne siano poco menzionate nei manuali scolatici di storia, secondo la Serri il loro ruolo nel processo di unificazione non fu di secondaria importanza. In particolare, i salotti aristocratici nei quali nacquero, circolarono e si arricchirono le idee nazionaliste e patrioottiche che servirono da sfondo ideolofico al Risorgimento, erano tenuti da donne. Il salotto della Contessa Maffei fu fondamentale per diffondere tra i pensatori dell’epoca una radicale passione civile e per creare quel rapporto tra intellettuali e politica che caratterizzara gli sviluppi storici successivi. Nei salotti si discuteva di quale fosse il volto che bisognava dare al nuovo italiano. In questo ambito il ruolo delle donne e della Contessa in particolare, fu un ruolo attivo, come si evince dal suo vasto epistolario. Tuttavia, allorché il politico e la lotta violenta presero il sopravvento e trasformarono in realtà ciò che prima era possibilità, le donne furono ignorate e si sminuì enormemente il loro sotanziale contributo per far spazio alla forza delle armi.

L’ultimo intervento è del professor Bruno Tobia. È un intervento breve che descrive il forte nesso che, dall’età moderna sino a noi, si è venuto creando tra patriottismo e architettura. Una sorta di politica simbolizzata, di pedagogia politica della forma, come l’ha definita il professore. Nell’Italia del risorgimento questo legame emerse particolarmente negli anni ’80- ’90 dell’Ottocento, quando venne chiaro alla mente la distanza che c’era tra paese legale e paese reale, come si disse allora. Si diede l’avvio a numerose opere monumentali che riguardavano in prevalenza due personaggi del Risorgimento (si parla di diarchia): Garibaldi da una parte e Vittorio Emanuele II dall’altra. In poche parole si tentò di risvegliare sentimenti di appartenenza alla comunità politica in termini di adesione, fedeltà, condivisione degli scopi mediante la riqualificazione degli spazi urbani e in particolare dei monumenti. Ciò che emerge dallo studio di tale simbologia è una caratteristica italiana, forse frutto delle forti tensioni ideologiche che accompagnavano ogni decisione di rappresentazione monumentale. Tale caratteristica è il prevalere di una raffigurazione personalizzata sulla personificazione simbolico- astratta tipica di altri paesi (la Francia su tutti). L’Italia non è personificata da un simbolo, ma si incarna nella figura del Re o del singolo condottiero.

Un’italia, dunque, che anche nell’utorappresentazione iconografica e simbolica, si presenta un’ “addizione di parti” piuttosto che corpo omogeneo.

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