Search
Friday 29 March 2024
  • :
  • :

C’era una volta la città dei matti… | Fuori le Mura

C’era una volta la città dei matti…

8 febbraio 2010

di Francesco Anzelmo


IMG_7035C’era una volta in Italia una delle tante vergogne collettive, uno di quei vizi della società che minava profondamente il concetto di persona; c’era una volta, non tanto tempo fa, appena trentanni fa, un uomo, ancor prima che uno psichiatra, un pensatore che a questa vergogna, a questo falso pudore, volle pubblicamente mettere fine, usando proprio quella scienza che avrebbe dovuto curare quella “vergogna” e invece ne era distillatrice per eccellenza. Quell’uomo era Franco Basaglia, quella vergogna era la malattia mentale, scheggia impazzita nel languente perbenismo della società borghese, italiana e non solo, visto il successo e la risonanza che ebbero le sue teorie in tutta Europa.

“Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone” (F.B.)

A trent’anni dalla scomparsa di Franco Basaglia, la Rai produce un film in due puntate (7 e 8 febbraio 2010) per la regia di Marco Turco, “C’era una volta la città dei matti”. Una pellicola che si misura, priva di nessuna sbavatura, con una realtà difficile da affrontare, quella dei manicomi e dei suoi abitanti disperatamente inascoltati, rappresentando Basaglia (frutto del lavoro del bravissimo Fabrizio Gifuni) con un taglio non eccessivamente biografico. I fatti riguardano l’operato di Basaglia, con pochissimi spaccati sul vissuto personale (quasi a voler calcare l’abnegazione alla sua missione). Le vicende raccontate descrivono la sua uscita dal mondo accademico, le sue due esperienze negli ospedali psichiatrici di Gorizia e di Trieste, il tutto attraverso le numerose difficoltà affrontate, gli ostracismi subiti dalla politica e soprattutto dalla comunità degli psichiatri. Infatti Franco Basaglia mette tra parentesi proprio il concetto di psichiatria classico, inteso palliativamente per introdurre un un approccio fenomenologico, in cui il fine è proprio il miglioramento della vita del paziente. Il suo sacrificio sarà premiato quando due anni prima della sua morte viene varata la legge 180, legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio.

IMG_3359

Non si tratta di una pellicola che vuole giocare con una certa retorica della follia, mira alla misura, all’equilibrio e soprattutto al rispetto di quegli uomini che hanno sofferto della cecità morale di altri uomini. Il dubbio che Marco Turco si pose nel primo approccio a questo lavoro fu proprio come ricreare la malattia mentale negli attori, senza che questa fosse amplificata dalla maschera attoriale facendosi magari irriverente. La risposta arrivò proprio dagli approfondimenti sui metodi basagliani, che miravano al lavoro “con” le persone malate e non “sulle” persone malate. La dimensione corale del modo di fare di Basaglia, si riversa sul set di “C’era una volta la città dei matti…”, e così vari gruppi e associazioni teatrali legate ai centri di salute mentale hanno introdotto loro attori, protagonisti del disaggio mentale in prima persona. Quindi la veridicità inseguita da Turco è raggiunta con un lavoro di incontro tra cast e persone con problemi psichici, esperienza che lascia un solco profondissimo in chiunque ne abbia preso parte. Cosi ci testimoniano i protagonisti, Fabrizio Giufuni e la splendida Vittoria Puccini usciti maturati e soddisfatti dall’esperienza. Il film lascia indiscutibilmente un nodo alla gola, riesce a toccare certe corde senza scomodare muse artistiche del livello di altri film storici sull’argomento, come per es. l’esaltante “Qualcuno volò sul nido del cuculo”; ma attraverso una pacata sobrietà, raggiunta con un lavoro ben orchestrato, Marco Turco porta in scena la verità dell’uomo e dello psichiatra Franco Basaglia.

IMG_3387

«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E’ una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.» (F.B.)

Share